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8 marzo 2022: volti e storie di donne in fuga e in guerra

UKRAINE-RUSSIA-CONFLICT-AFP

Photo by Aris Messinis / AFP

Annalisa Teggi - pubblicato il 08/03/22

Alcune immagini dalle frontiere e dalle città ucraine bombardate. Volti, non discorsi retorici sulle donne. Possiamo fermarci a guardare, tentare una comunione fatta di silenzio e preghiera.

Impotenti a guardare

Qualsiasi parola oggi suona retorica rispetto all’urto della realtà. Non è giorno di festa, ma si può parlare di donne. Anzi si può guardarle. Da tanti anni l’8 marzo incombeva sulle redazioni giornalistiche portandosi dietro la frenesia di sfornare il contenuto più cool, più dirompente, sempre un passo avanti verso l’ultima frontiera (ideologica) del femminismo.

Le donne oggi sono davvero alle frontiere. Hanno valigie fatte alla svelta e le braccia sfinite per il peso dei bambini portati in braccio. Tace dunque la frenesia retorica dei discorsi astratti da giorno della mimosa e nessuno ne sentirà la mancanza. Possiamo stare in silenzio, a guardare brandelli di storia viva che sfilano sotto i nostri occhi muti. E possiamo anche vincere la tentazione di trovare il bandolo della matassa. Proprio ieri sera ho avuto uno scambio con un’amica che mi ripeteva affranta: “Mi sento impotente“.

Da quanto tempo non lo dicevamo? In questi giorni tante nostre presunzioni e pose recidive si sbriciolano, ci accorgiamo che non abbiamo commenti all’altezza del peso degli eventi. Sentirci impotenti è parte del contraccolpo da sentire al cospetto di questa ferita sanguinante che riguarda l’umanità intera.

Non c’è una guerra di cui noi siamo spettatori, ci sono uomini e donne del cui travaglio siamo compagni. Che sia travaglio anche per noi, è un’ipotesi già in direzione contraria alla guerra.

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Famiglie spaccate e in fuga

Da una decina di giorni è accaduto che la guerra sia entrata nella vita reale di milioni di persone. Le famiglie ucraine sono state spaccate a metà: gli uomini a combattere, donne e bambini in fuga. Valigie fatte in fretta, e incognite ad ogni passo fuori casa. E anche questo è già un tentativo di copione riduttivo. Non si può generalizzare su niente. Si sa di donne che sono rimaste al fianco degli uomini nei fronti caldi della guerra. C’è una grossa fetta di gente che resiste senza acqua ed elettricità nelle città assediate.

Insomma, non c’è una trama. C’è il caos generato da un’esplosione globale, e ogni piccolo frammento è una persona viva. Il mostro colossale della guerra ha l’arroganza di dire che ogni anima diventa una variabile infinitesimale nel grande disegno di un conflitto. L’opposto è la verità scritta nel nostro DNA, questo è il senso per cui vi proponiamo un viaggio nelle istantanee di cronaca di questi giorni. L’unico filo rosso che unisce questi scatti è il cuore dell’uomo, identico dentro ogni scenario. Ciascuno si muove per un bene da difendere anche in mezzo all’inferno.

Comunità improvvisate in fuga

I sotterranei delle metropolitane, sono stati questi i primi luoghi presi d’assalto dal popolo ucraino. Luoghi di passaggio sono diventati case provvisorie ed embrioni di comunità, nate da una tragedia che avvicina estranei con un’urgenza comune. Coperte e cibo condiviso, bambini sconosciuti che dormono fianco a fianco. In queste foto di rifugi improvvisati si vedono solo donne, hanno alle spalle l’addio a compagni, mariti, padri e di fronte l’ipotesi di andare via, chissà dove, curando di ora in ora le necessità di figli anche piccolissimi.

Sottoterra, nascoste, nel putiferio di macerie e oggetti sparsi. Il travaglio è il tempo dello stare dentro un dolore incomprensibile, ondate di paura e forse qualche soffio passeggero di sollievo nato da uno scambio di parole con chi è compagno di fuga.

Alle frontiere

Cominciano a diffondersi testimonianze di chi è stato alle frontiere polacche o rumene ad accogliere l’ondata di profughi più grande della storia dopo la Seconda Guerra Mondiale. E se questa è la definizione giornalistica, la realtà è una folla infinita di donne e bambini che solo in pochi casi, varcato l’ambìto confine, hanno qualcuno che è venuto loro incontro.

Un amico di ritorno da un punto della frontiera slovacca mi diceva di non riuscire togliersi di dosso la vista di 4 donne con 6 bambini che, oltre il posto di blocco, erano smarriti e inerti a – 9 gradi di temperatura. I bambini correvano con l’energia innocente di chi vive solo il presente, le madri barcollavano per la stanchezza e lo smarrimento.

Questa foto è un segno della solidarietà spontanea che sta moltiplicandosi. In una stazione polacca sono stati allineati dei passeggini per accogliere chi arriverà sui treni in fuga dall’Ucraina. Se c’è molto di cui piangere e lamentarsi, non di meno va riconosciuta questa evidenza: la nostra vocazione innata alla solidarietà. Le nazioni hanno le loro macchine politiche da oliare e mettere in moto, ma il popolo si catapulta nel soccorso con quel che ha. E questo è un solco non marginale nella storia di cui siamo testimoni. Se la sofferenza dell’altro diventa nostra, allora il travaglio comune è un risveglio della coscienza sulla domanda: cosa tiene in piedi la casa dell’uomo?

Ospedali, storie di chi resta nell’inferno

Una delle prime notizie circolate all’indomani dei bombardamenti russi è stata la nascita di una bimba nella metropolitana di Kiev. Molti altri bambini sono nati e continuano a nascere sotto le bombe. Se per tantissimi è pericoloso mettersi su vie di fughe che sono oggetto di attacchi, c’è chi proprio non può evacuare. Qui sotto l’immagine di un reparto di maternità ricavato in un sotterraneo.

La foto che abbiamo scelto come copertina è quella di una mamma che accudisce sua figlia, ricoverata in un reparto di pediatria ucraino e costretta a rifugiarsi nei sotterranei dell’ospedale. E’ una storia di vulnerabilità, cura e speranza che ne contiene migliaia, e frantuma in un istante migliaia di frottole ideologiche di genere che ci siamo raccontati per anni. E sappiamo che per ogni immagine ci sono mille altri punti ciechi non inquadrati, gli orfanotrofi e altri pertugi dove un’umanità fragilissima deve stare, e basta. Stiamo anche noi.

Guardare e pregare

Impotenti, scrivevo prima. Proprio perché è molto scomodo sentirsi così esposti, nasce la tentazione di reagire abbuffandosi di informazioni da sfogare poi con un flusso istintivo di parole ovunque capita, chat, social network, eccetera. Vi proponiamo, invece, il silenzio. Ecco alcune testimonianze visive raccolte dai fotoreporter inviati nei luoghi della guerra. Ci mostrano l’irrompere del paura, della disperazione e della precarietà nella vita di persone identiche a noi. Possiamo fermarci a guardare, tentare una comunione fatta di silenzio e immedesimazione. E possiamo pregare, come forma ancora più attiva e forte di comunione.

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