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Anna, la bimba cerebrolesa che ha salvato la vita a tanti ragazzi difficili

MARIO DUPUIS, CA' EDIMAR

Mario Dupuis

Annalisa Teggi - pubblicato il 13/04/22

Il padre, Mario Dupuis, racconta il mistero di una vita così fragile che ha aperto un'ipotesi di accoglienza enorme: è nata Ca’ Edimar, da vent'anni a Padova centinaia di ragazzi a rischio scoprono di essere amati.

Cosa ci manca, Anna?

Accade qualcosa che segna irrimediabilmente una vita e ne cambia tantissime altre. Nel 1980 nasce a Padova una bambina, Anna, ma un’asfissia da parto le ‘cancella’ metà cervello. A pensarci bene, è un caso che potrebbe chiudere un’intera famiglia nella gabbia del risentimento contro un destino crudele. Le è mancata l’aria, e ciò l’ha resa una creatura gravemente impedita nelle funzioni anche più semplici, incapace di qualsiasi autonomia. Ma non incapace di essere.

Che aria ci manca, davvero? Qual è il vero ossigeno della vita? Il padre di Anna, Mario Dupuis, ha raccontato in un libro (Il mistero di Anna, ed. Itaca) l’inaspettato respiro di vita che si è generato da una bambina che si farebbe presto a definire scarto. E taluni sarebbero pronti a insegnarci che dovrebbe essere pietà sopprimere chi come Anna ha una vita che non è vita. La replica al boato di un pensiero ridotto e disperato è nella storia che ha come pietra angolare questa bambina che in 15 anni ha messo tutto a soqquadro, facendo quasi niente.

Anna è venuta al mondo il 29 aprile 1980 dopo quattro anni di matrimonio, anni bellissimi, vissuti tutt’uno con la crescita della comunità di Padova in cui eravamo, dopo gli anni del clu (Comunione e Liberazione Universitari, NdR), una delle prime famiglie: il rapporto con don Giussani, la nascita di Daniele, il primo figlio, che aveva tre anni quando è arrivata Anna; i primi anni di insegnamento nelle scuole superiori…
All’improvviso ti capita una cosa così. La vita con Anna e la fatica umana che ci era richiesta per accudirla ogni giorno, ci hanno, molto lentamente, obbligato a una domanda sulla realtà la cui risposta non era scontata perché eravamo cristiani.

Da Il mistero di Anna

Il corpo bisognoso del mondo

Dalle parole appena riportate s’intuisce che la famiglia Dupuis è cresciuta nell’ambito dell’esperienza di Comunione e Liberazione. E come scrive Mario, non basta essere cristiani per avere subito chiaro come trattare una figlia gravemente disabile, men che meno è chiaro il piano provvidenziale di Dio attraverso quella presenza.

Noi avremmo dato la vita perché questa figlia potesse vivere nel miglior modo possibile; però dire che per noi lei “era un dono di Dio” era una parola grossa, perciò eravamo molto cauti nel parlare di Anna così perché, quando la realtà appare in tutta la sua crudezza, ci vuole del tempo per capire che cosa hai davanti e cosa c’entra questo limite con il tuo desiderio di felicità e di infinito. Si passa per la ribellione, e poi per la rassegnazione, e poi ancora per la ribellione…

Facciamo un brusco salto in avanti di 15 anni. Lo stesso padre, che aveva questa coscienza di limite di fronte alla figlia, arriva a dire nel giorno del funerale di Anna (9 febbraio 1995):

Ora che non abbiamo più il tuo esile corpo da servire e sostenere in ogni suo bisogno, intercedi presso Cristo perché ci faccia accorgere, dentro il corpo bisognoso del mondo, di chi continuare a prendersi cura, per la Gloria di Cristo.

Che mai è accaduto nel mezzo? Di sicuro il cambiamento di sguardo non è nato da un tuffo nell’esercizio di un virtuoso, muscolare e pietoso assistenzialismo. Mario Dupuis e sua moglie e gli amici che erano loro accanto si sono messi a respirare come Anna, grazie allo sguardo che Don Giussani mostrava verso quella bambina. E respirare in questo caso significa sorprendersi di quanto sia feconda la nostra dipendenza da Dio, quel cordone ombelicale che ci tira fuori dal pantano delle riduzioni. Anna dipendeva in tutto e per tutto da chi la curava, mostrando proprio a loro, per primi, che tutti siamo come lei. Ce lo dimentichiamo, ma siamo innestati nella cura che Dio ha per noi in ogni istante.

Nel mezzo, dunque, è accaduta una rivoluzione copernicana. La fragilità estrema di Anna non esigeva l’atteggiamento di chi si chiede “Cosa posso fare per lei?”, ma la domanda ben più radicale “Chi è lei per me?“. Conclusa la parte terrena della sua vita, questa ragazza così apparentemente inerte ha lasciato la sua famiglia sulla soglia di una grande avventura. Continuare ad accogliere chi è nel bisogno.

Ca’ Edimar

Edimar era un ragazzino brasiliano, un teppistello delle favelas. L’incontro con un’insegnante cristiana gli cambiò la vita radicalmente. Scoprendo da lei il valore unico della sua persona, compì un gesto eroico. Si rifiutò di eseguire gli ordini del suo capobanda (che gli aveva chiesto di ammazzare qualcuno) e per questo fu ucciso.

Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Un paradosso capace di esplodere di senso quando diventa realtà. Edimar e Anna sono parte di quel popolo silenzioso che dà la vita, e così facendo la trova. E la fa trovare agli altri. Un’ipotesi folle e operosa è nata dalla morte di Anna e ha preso il nome di Edimar. Un gruppo di famiglie si è messo a disposizione del bisogno di altri corpi feriti – e anche anime. Da questa accoglienza è nata l’opera Ca’ Edimar. Mario Dupuis insieme a una comunità di amici sempre più ampia ne ha piantato il seme a Padova, ormai 25 anni fa.

Ci dicevamo che i servizi comunali non erano sufficienti e che ci voleva qualcuno per cui il minore a rischio non fosse un caso, ma una persona da amare. Riccardo ed io cominciammo a chiederci se non fossimo noi, le nostre famiglie questo “qualcuno”. Questa domanda rimase per un po’ sospesa fino a quando un giorno io e Riccardo parlammo con uno di questi ragazzi, particolarmente incontenibile in classe, per cercare di capire un po’ di più del perché del suo comportamento. Ci disse che padre e madre erano morti di overdose ed era stato collocato in una comunità. Gli chiesi: «E non ti trovi bene?».
Lui ci rispose: «Ho chi mi lava la biancheria, chi me la stira, chi fa da mangiare, lo psicologo… ma non c’è nessuno che mi vuole veramente bene!».

CA' EDIMAR, PADOVA

La vita che non si vive da soli

Mamme sole, minori complicati, casi ingestibili. Sono addirittura centinaia i giovani che hanno passato un tempo di accoglienza a Ca’ Edimar. Occasioni di lavoro e di crescita sono state offerte loro, e si potrebbe redigere un bilancio. Qualcosa come il prima e dopo di certe trasmissioni. Ma la logica del bilancio e i report sul prodotto tradiscono il cuore di quest’esperienza. Paradossalmente, un ragazzo difficile potrebbe rimanere un ragazzo difficile, ma che ha conosciuto e accolto la verità di sentirsi amato. Qual è la posta in gioco, dunque?

Un ragazzo molto trasgressivo e intelligente, con cui era iniziato un dialogo interessante, un giorno venendo a Ca’ Edimar ha tentato di rubare dei soldi a un’anziana signora sul tram. Il conducente l’ha portato da noi, sapendo che lì stava venendo. Per fortuna la signora non ha voluto fare denuncia e tutto è finito lì.
Io, a bruciapelo, gli ho chiesto: «Se fossi stato lì con te sul tram, avesti rubato?». E lui: «No!». Quando gli ho chiesto perché, la sua risposta è stata: «Perché tu rappresenti una parte di me che io non so ancora vivere da solo».
Lì ho capito ancora una volta che tutti siamo dei poveri cristi, abbiamo sempre bisogno di una Presenza non che ci controlli, ma che ci ricordi la verità di noi stessi, tante volte
trascurata o scordata dentro la vita di tutti i giorni.

Leggendo la storia di Anna e quel che è nato dopo la sua morte, si fa i conti con questo. Ci sono parti di noi che non sappiamo vivere da soli. Tendenzialmente sono le più fondamentali. Anna era dipendente in tutto, un ritratto brutalmente onesto dell’umano. Noi siamo altrettanto dipendenti, senza legami non c’è una coscienza autentica di sé. Gesù ci ha lasciato una compagnia di amici, perché non fossimo soli sui tanti ‘tram’ che prendiamo ogni giorno e su cui c’imbattiamo nelle tentazioni dei nostri molti tradimenti.

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