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In memoria di Betty, 86enne canadese “suicidata” in chiesa

EUTANASIA, MEDICINE, PENTOBARBITAL

felipe caparros | Shutterstock

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 02/05/22

È avvenuto quasi due mesi fa il primo suicidio assistito praticato in un edificio di culto cristiano nella regione canadese di Manitoba. Da una parte il tentativo di imbastire una narrazione edulcorata dell’atto, dall’altra le proposte delle comunità di fede. Necessariamente povere, ma che promettono fecondità.

Nel primo pomeriggio del 9 marzo, una ottantaseienne è stata uccisa nella Churchill Park United Church, a Winnipeg, nella regione canadese di Manitoba. Sembrerebbe l’inizio di un giallo, oppure un attacco da pezzo di cronaca nera, e invece no, o meglio non si trova un accordo neanche sul colore della penna che debba riportare i fatti: è verissimo, infatti, che Betty Sanguin è stata uccisa, e lo è altrettanto che il fatto è avvenuto nella sua chiesa parrocchiale; in molti però neppure parlerebbero di “omicidio”, dal momento che è stata la stessa signora Sanguin a chiedere di essere terminata, e che è stata la sua referente pastorale – la reverenda Dawn Rolke – ad acconsentire all’insolita destinazione dell’aula liturgica. 

Secondo alcuni a cambiare tutto sarebbe il fatto che la signora Sanguin fosse affetta da sclerosi laterale amiotrofica (la terribile SLA): l’inguaribile morbo le era stato diagnosticato un anno prima, e il giorno della sua morte la signora Sanguin (ancora abile a stare seduta, a ridere e parlare, a tenere oggetti) ha voluto scrivere su una lavagnetta questo saluto ai convenuti: «Benvenuti al mio giorno speciale. Vi amo tutti moltissimo». 

La “liturgia” del “giorno speciale” 

Pare che il consiglio pastorale della parrocchia (ovvero l’organo omologo, visto che – sarà superfluo ma giova sottolinearlo – la comunità ecclesiale in questione non afferisce alla Chiesa Cattolica) si fosse espresso all’unanimità per accogliere la richiesta della signora Sanguin, la quale aveva domandato di poter praticare il proprio suicidio assistito all’interno dell’amata chiesa. 

Michael Gryboski ha illustrato su ChristianPost.com che 

la United Church of Canada, la denominazione alla quale appartiene Churchill Park, ha emanato nel 2017 una risoluzione con al quale si dichiara lecito il suicidio assistito sulla base di una valutazione “caso per caso”, fermo restando che i membri sono liberi di avere opinioni disparate in merito. 

Il provvedimento è arrivato relativamente presto, visto che il suicidio assistito è legale in Canada dal 2016, ma nonostante la presa di posizione “in pinciple” è stato quello della signora Sanguin il primo caso di suicidio assistito perpetrato in un edificio di culto cristiano in Manitoba. Alla fine del mese di aprile, ossia pochi giorni fa, Emily Standfield ha incontrato le figlie della signora Betty e ha prodotto per broadview.orgun accurato resoconto di quel surreale primo pomeriggio

Pare che i (sei) figli si siano molto adoperati per «rendere intimo il grande spazio» dell’aula liturgica: «alla fine sembrava quasi il soggiorno» dell’anziana signora. In particolare c’era un lettino per la signora Betty, un tappeto, una lampada, una collezione di foto di famiglia e parecchie delle trapunte che nel corso degli anni la moritura ultraottuagenaria aveva realizzato. 

Le sedie erano state disposte a mo’ di “cerchio del prendersi cura”, ed erano disposte in tre ranghi concentrici: le sei più vicine al lettino per i figli; la seconda fila, piuttosto nutrita, era per generi/nuore e nipoti; la terza, decisamente vasta, per amici e conoscenti. E così è andata la “cerimonia di attraversamento” (crossing-over ceremony): due dei nipoti hanno cantato “Let Your Light Shine on Me” e tutti si sono uniti a loro per “How Great Thou Art”. Il gospel era una delle passioni musicali della signora Betty, la quale aveva composto una scaletta musicale (purtroppo gli altri titoli non sono stati resi pubblici – non da queste fonti) appositamente per l’occasione. 

È stata un’opportunità – ha detto la figlia Renée – per tutti quanti hanno voluto venire, stringerle la mano, dirle “ti voglio bene” e “addio”. 

Dopo di ciò, la rev. Rolke ha impartito una benedizione alla signora Betty, insieme con tutti e sei i suoi figli e figlie, i quali invitavano la madre ad “andare in pace”. 

A quel punto tutti i presenti sono stati congedati, e in capo a un tempo tecnico sono tornati sul posto solo i sei figli, insieme con il personale medico che entrava a performare il suicidio della signora, alla quale un’ultima volta è stata chiesta conferma della sua volontà di morte. Dall’incrocio di diverse versioni sembra che quest’ultima parte della procedura sia durata circa un quarto d’ora: 

Quella parte è stata tosta – ha detto la figlia Lynda –: stavamo in piedi attorno a lei e piangevamo, ridevamo… di tutto… 

Il dibattito interno alla galassia riformata

Standfield ha enfatizzato molto, nel suo articolo, la rivendicazione di “pietà autentica” dei convenuti e di genuina bontà della signora Betty, della quale si ricorda perfino che «era molto impegnata nella Oak Table, che serve pasti caldi e provvede all’ospitalità dei bisognosi di Winnipeg». E certamente la decisione non è stata presa a cuor leggero: 

Ha lottato con la sua fede [she grappled with] – ne ha detto la figlia Renée –… come si fa a sapere quando l’anima è pronta? Quand’è che è pronta alla traversata? 

E da parte sua anche la rev. Rolke ha descritto il senso religioso della signora come 

[una] spiritualità in crescita e che si sviluppava: una fede grintosa, fiera e appassionata, proprio come lei. 

Sia la referente parrocchiale sia i figli della signora sembrano preoccupati di rispondere ad accuse (più o meno esplicite) che sono piovute sulla famiglia e sulla comunità ecclesiale: Rolke ha dichiarato di trovare aspro stridore fra il fermo rigorismo dei suoi critici e la «sovrabbondante presenza di spirito durante la cerimonia». La figlia Renée ha espresso le consuete dichiarazioni auto-deterministiche che ricorrono sul tema: 

Per noi esseri umani, sono le parole e le scelte a contare, alla fine. E non dobbiamo vergognarci di chiedere quello che vogliamo. Ce ne andiamo nel modo in cui vogliamo andarcene. 

Rolke si è detta poi stupita del fatto che molte critiche sembrassero meno rivolte al suicidio in sé che al fatto di averlo performato in chiesa: 

È un bene che ogni congregazione si ponga in discernimento: che cosa crediamo circa il nostro spazio? È più sacro di altri spazi? A che serve un santuario? Chi può entrarci, e che cosa può accadervi? In caso che altre congregazioni ricevano richieste di “attraversamento”, è importante sapere che cosa si pensa sul proprio spazio. 

Standfield ha raccolto molte delle parole di questa figlia di Betty, e ha scelto di chiudere con le più involute e forti di tutte il proprio pezzo: 

È stato meno triste? No. È stato meno tragico? No. Ci ha spezzato meno il cuore? No. Però… È stato il modo più bello, umano e compassionevole di morire? Sì. 

Un paio di settimane prima che il pezzo a firma Standfield comparisse su broadview.org, però, Steve Warren aveva riportato le notizie mutuate dal Winnipeg Free Presssu CBN News, e con l’occasione gli era sembrato opportuno riportare sia qualche parola in più da parte della rev. Rolke sia qualcuna da parte dei critici. La referente pastorale aveva spiegato perché anch’ella aveva votato, in consiglio pastorale, per ammettere la richiesta della signora e darle seguito: 

Per noi è stato perfettamente naturale gestire questa cerimonia per Betty nel nostro santuario perché la morte è una parte naturale della vita, e Betty ha vissuto buona parte della sua età matura in questa comunità di fede [nella quale Rolke si trova dal 2020, N.d.R.]. […] Alcuni vedono la morte medicalmente assistita come una faccenda privata e dunque hanno voluto onorare questa richiesta individuale. Alcuni hanno ritenuto che fosse particolarmente giusto nel caso di Betty. 

Il direttore delle “comunicazioni sociali” della Christian Charity CARE, James Mildred, ha dichiarato di trovare «profondamente conturbante» il fatto che la Churchill Park abbia «appoggiato la pratica del suicidio assistito», e dunque non per ragioni inerenti alla destinazione d’uso dell’edificio di culto, bensì – più a monte – per questioni afferenti al grande assente (o perlomeno “latente”) di queste prime ottomila battute, Dio. 

Posso dire onestamente che è mia netta convinzione che la parola di Dio in materia sia chiara: più di una volta la Bibbia ci insegna che le nostre vite non sono nelle nostre mani, e che non possiamo uccidere o farci coinvolgere nel suicidio di qualcuno. 

Mildred è andato poi avanti nel declinare la sua sintetica esegesi della dottrina biblica in termini di dottrina sociale: 

La prescrizione di farmaci mortali non è una risposta appropriata alla sofferenza, ed è profondamente nociva: per le persone che soffrono in quello stesso processo; per i parenti che stanno a guardare e che poi sono soggetti a senso di colpa e dolore; e per la società intera. 

Gryboski ha raccolto qualche altra considerazione, come quella del rettore del Seminario Teologico Battista Albert Mohler Jr., il quale già un anno fa aveva additato la china scivolosa su cui la legislazione canadese, soltanto un lustro dopo la sua approvazione, già s’incamminava: nel 2021 infatti la legge del 2016 aveva visto allentare le maglie dei suoi criterî di valutazione, ammettendo al suicidio assistito anche i pazienti affetti da malattie non mortali (e sebbene i disturbi psichici restino ancora estromessi, sembra che ci sia già almeno un caso controverso di uomo depresso a cui sarebbe stato permesso il suicidio assistito). In un episodio del suo podcast, The Briefing, Mohler aveva detto: 

Il Parlamento Canadese ha ora esteso la logica sulla quale prima insisteva dicendo che avrebbe limitato l’applicazione della legge a coloro che hanno ragionevoli aspettative di morte nel breve termine. Vedete bene che quella promessa non viene mai mantenuta: una volta che entri nella logica del suicidio medicalmente assistito o dell’eutanasia, ti ritrovi quasi in ogni caso a estendere sempre più quella logica. 

Come si vede non è questione di “Protestanti contro Cattolici”: anche la Evangelical Fellowship of Canada ha risposto via mail alle domande del Christian Post, affermando che il suicidio assistito e l’eutanasia «svalutino fondamentalmente la vita umana»: 

Essi suggeriscono che alcune vite non valgano la pena di essere vissute, ma tutte le vita sono preziose, sono doni di Dio. 

Noi crediamo che la risposta appropriata alla sofferenza sia concentrarsi su quest’ultima e alleviarla, non eliminare chi sta soffrendo. Rispondiamo a chi sta soffrendo con cura e compassione, facendoci loro compagni di viaggio finché camminano «nell’ombra della morte». 

È da biasimare che, come Nazione, abbiamo decriminalizzato il suicidio assistito in risposta alla sofferenza laddove molti Canadesi non hanno accesso a cure palliative di alta qualità e ai relativi sistemi di supporto. 

Come si è detto, la rev. Rolke ha dichiarato di aver ricevuto critiche unicamente sull’opportunità di allestire il suicidio assistito nello spazio sacro, e non ha perso occasione di lodare la grande professionalità del personale medico e paramedico che accorre nel somministrare la morte ai sofferenti: «They are exceptionally caring». Rolke ha dichiarato di essere stata cappellana ospedaliera per molti anni, e di essere testimone dell’«insensatezza di alcune sofferenze»: 

[…] mi sono formata l’opinione, lungo molti anni, che non c’è alcunché di dignitoso nelle sofferenze gratuite. 

A queste parole – dalle quali non si capisce neppure se chi parla crede in Dio, neanche a parlare di Cristo – la rev. Rolke aggiunge un prudente: «Comunque non sono ancora giunta a un’opinione definitiva, sull’argomento. Diciamo che per ora sto bene dove sto». 

Come “tenere il filo” di un dolore sensato

Chiaramente nessuno vuole infliggere “sofferenze gratuite” neppure a un pollo, figuriamoci a una squisita nonnina che ha servito alla caritas parrocchiale, ricamato trapunte e cantato gospel fino a quando le membra l’hanno assecondata: il punto è (come sempre) stabilire quando e quali siano le “sofferenze gratuite”. 

Le dichiarazioni del rev. Mohler e della Evangelical Fellowship of Canada, richiamate sopra, ricordano quelle che molti vescovi cattolici, come singoli e come conferenze episcopali (ricordo fra tutte quella italiana e quella francese), hanno rilasciato nel corso degli anni. Gli argomenti possono essere più o meno approfonditi e dettagliati, ma restano essenzialmente quelli. Sta di fatto che 

la sofferenza umana desta compassione, desta anche rispetto, ed a suo modo intimidisce. In essa, infatti, è contenuta la grandezza di uno specifico mistero. 

Giovanni Paolo II, Salvifici doloris 4

Giovanni Paolo II intuiva queste cose quando, nel 1984, ancora nuotava e sciava, e anche l’attentato di tre anni prima lo aveva rafforzato nella convinzione di essere particolarmente tutelato da «una mano materna»: il magistero del dolore, tuttavia, sarebbe stato confermato fino all’afasia (e all’ineffabile) degli ultimi anni di pontificato. 

Non ho potuto fare a meno di pensare molto allo stimato collega Salvatore Mazza, mentre pensavo a questo pezzo e lo scrivevo, e a ogni parola ho avvertito il suo sguardo lucido e vigile, ultimo vestigio di vitalità nel suo corpo paralizzato dalla SLA. Come molti sapranno, dal settembre 2018 Mazza scrive, letteralmente “con gli occhi”, una rubrica che è un diario di bordo su una nave che ogni giorno perde irrimediabilmente pezzi: non senza garbata autoironia ha voluto chiamarla “slalom”. Sono pagine dense e intense, che neppure oso sintetizzare ma alle quali volentieri rimando come commento autentico alla Salvifici doloris (e sono sicuro che Giovanni Paolo II lo assista sempre più da vicino nei suoi tornanti). In uno dei due articoli dello scorso novembre, però, Mazza mi ha illuminato su una questione-chiave che resta implicita quando si dice “né eutanasia né accanimento”: certe malattie progressivamente invalidanti impongono l’obbligo morale di discernere e individuare (con certezza morale, chiaramente, con “epikeia”) un punto nel quale smettere di tenere duro e mollare invece la presa

[…] Con Sabatelli e Conte abbiamo parlato di molte cose, mi hanno dato qualche suggerimento su come posso alleviare alcuni sintomi molto fastidiosi (spero davvero che funzionino, ho appena iniziato, vi farò sapere) e su come poter tornare ad assaporare qualcosa. Ho iniziato con un cucchiaino di caffè, poi un po’ di gelato, arriverà anche la carbonara… Dopo dieci mesi di nulla, anche quei minuscoli assaggini mi mandano in deliquio. Non penso sia difficile da immaginare. Abbiamo anche parlato, anzi riparlato, del percorso condiviso delle cure, ossia delle mie disposizioni per quando le condizioni non saranno più sopportabili. In questi ultimi mesi, in proposito, ero riuscito finalmente a chiarirmi bene le idee e a mettere tutto nero su bianco, condiviso con moglie e figlie. Ora quel foglio è stato sottoscritto anche dai miei medici. Sono assolutamente sereno.

Salvatore Mazza, Il percorso (condiviso) che mi attende, 4 novembre 2021 

Ho pensato a Salvatore leggendo di Betty, e ora ripenso a lei trascrivendo queste righe di lui. Il ricordo vola pure a Paolo Palumbo e a quanti, pur avendo molte volte ribadito il proprio attaccamento alla vita, con uguale onestà denunciano pure la stanchezza, la tristezza, il dolore del male che si aggrava. Spesso per costoro possiamo fare poco, pochissimo, e anche parlare o scrivere rischia di essere irrisorio se non offensivo: «…Essere diventati uomini profondi – scriveva Oscar Wilde nel suo “De profundis” – è privilegio di quanti hanno sofferto». 

Davanti a Paolo, a Salvatore, a Betty, quali che siano le loro e le nostre convinzioni, siamo come pozzanghere accanto ad abissi, e i loro silenzî non trovano nelle nostre (più o meno qualificate) conferenze più sollievo, né più solidarietà, di quanta possano trovarne nelle nostre chiacchiere. Quel che resta a legarci è molto poco, in realtà: è un filo fatto di affetto e di pudore, di prossimità e di distanza; un filo che si fa più grosso o più fine a seconda del ruolo che nelle loro vite ci è dato. Quel che possiamo (e dobbiamo) fare è tenere quel filo così costantemente e così delicatamente che non si spezzi mai; e d’altro canto prepararci oggi ad essere eventualmente domani al loro posto, perché anche noi, come Giovanni Paolo II, potremmo essere chiamati (in chissà quali modi) a vivere nella muta carne ciò che oggi professiamo con parole volanti. 

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