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Ex detenuto bussa al carcere, vuole rientrare: “Fuori non ho nessuno”

MANI, CARCERE, PRIGIONE

Georgian Bay Boudoir | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 03/05/22

È accaduto a Messina. Per ben due volte nella stessa notte un ex detenuto ha implorato di essere rimesso in carcere: fuori era giuridicamente libero ma senza risorse e disperato.

“Voglio che mi arrestiate”

A Messina nella notte tra venerdì 29 aprile e sabato 30 un uomo, per ben due volte, ha chiesto di essere arrestato e condotto in carcere. Se non fosse un tragico fatto di cronaca, potrebbe solo essere l’inizio di un racconto distopico sull’inospitalità del regno libero dei viventi.

Il caso è stato riferito dalla redazione palermitana di Repubblica. Non si conosce l’identità dell’uomo, si sa solo che ha 38 anni ed era stato arrestato in precedenza, rimanendo dietro le sbarre per qualche mese.

Un ex detenuto, per ben due volte, nella notte tra venerdì e sabato, ha “bussato” con insistenza alle porte della casa circondariale di Gazzi, a Messina, chiedendo di poter tornare dietro le sbarre, perché “spaventato” dal mondo esterno. Un uomo libero, di 38 anni, che non aveva alcuna pena da scontare, e non doveva neanche costituirsi. “Una storia tristissima. E purtroppo non è stato l’unico caso”, dicono dalla casa circondariale di Messina. L’uomo, in passato, era stato arrestato. Dopo alcuni mesi di detenzione era stato scarcerato.

Da Repubblica

Perché bussare è messo tra virgolette? Perché la prima parola che viene da associare al carcere sarebbe, semmai, fuga. Si vorrebbe scappare, starne lontani; e non implorare di entrarci, addirittura senza capi di accusa pendenti. A rincarare la dose di questa tragedia c’è poi quel dettaglio “non è stato l’unico caso”. Dunque capita, non siamo di fronte a un caso limite. Capita che si esca dal carcere da uomini giuridicamente liberi, ma prigionieri di un isolamento che inibisce ogni vera libertà e anche la sopravvivenza.

Quello che sarebbe ragionevolmente impossibile si presenta come l’ultimo barlume di speranza: bussare alla prigione. Un ossimoro. E questa storia ci invita solo a un giudizio sulle molte lacune del sistema rieducativo delle carceri o dice qualcosa di amaro anche sulla nostra comunità umana?

Liberi?

Non una volta ma due. L’uomo che si è presentato all’entrata della casa circondariale Gazzi non ha bussato una sola volta. Dopo il primo rifiuto da parte degli agenti è tornato.

L’uomo, però, non si è arreso: ha spiegato all’agente che voleva tornare subito in carcere, perché fuori non poteva neanche permettersi di mangiare, non aveva un posto dove vivere, non aveva nessun punto di riferimento. E ha ribadito che in carcere era stato trattato sempre benissimo. È poi tornato qualche ora dopo, verso l’una e mezza di notte, chiedendo di essere accettato, dicendo che fuori non ce l’avrebbe fatta, e chiedendo anche di chiamare la direttrice del carcere, Angela Sciavicco. Alla fine, suo malgrado, l’uomo è andato via, rassegnato, e in preda alla disperazione.

Ibid.
CARCERE, UOMO, SBARRE

Un uomo che bussa è come un neonato che piange. Si riconosce dipendente dal rapporto con qualcuno, chiede. Sono tre i bisogni riconosciuti come essenziali da questo ex detenuto: mangiare, un tetto sulla testa, bisogno di un riferimento. La sopravvivenza di un uomo, infatti, dipende da fattori materiali, ma anche dall’avere una casa, intesa come presenza di legami, rapporti.

E nella cronaca che arriva da Messina il mondo ci appare capovolto. Fuori, nel mondo dei liberi, dove le infinite connessioni sono potenzialmente possibili, dove commercialmente si punta sulla disponibilità h24, c’è il buio fitto. Un incubo fatto di silenzio e solitudine. Dentro, dietro le sbarre, c’è il ricordo di una comunità vissuta, probabilmente in condizioni complicate e non rosee, eppure vissuta.In carcere era stato trattato sempre benissimo. Sembrerebbe un assurdo in astratto, ma può essere benissimo vero nell’esperienza e per motivi diversi. In luoghi inospitali si trovano spesso occasioni insospettabili di fratellanza. Può esserci stato – per quest’uomo – un rapporto di autentica amicizia con qualche compagno di cella, lo sguardo umano di qualche agente, molte carceri ospitano progetti di riabilitazione.

E, forse, ancora prima di queste ipotesi, la prigione costringe a un rapporto con gli altri. Vince ogni specie di ritrosia e lo fa in modo ruvido, senza anestetici. Da fuori ne vediamo solo gli estremi. Ci scandalizziamo perché questi rapporti forzati spesso degenerano in atti di violenza, e sono tragedie che si guadagnano la visibilità mediatica.

Più in penombra ma non meno serio è quello che accade agli – apparenti – antipodi della violenza. Uscire fuori, essere liberi e trovarsi senza uno sguardo ricambiato, allora ci si sente davvero condannati a morte.

La finalità rieducativa della pena

La notizia di questo ex detenuto che ha chiesto di essere di nuovo arrestato sembra apparentemente opposta a un dato statistico: l’aumento dei suicidi tra i carcerati. È quanto emerge dal nuovo rapporto sulle condizioni di detenzione in carcere di Antigone, l’associazione che dal 1998 entra con i suoi osservatori negli istituti di pena per monitorare la situazione interna. 

Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’OMS, il tasso di suicidio in Italia nel 2019 era pari a 0,67 casi ogni 10.000 persone. Nello stesso anno, il tasso di suicidi in carcere era pari a 8,7 ogni 10.000 detenuti mediamente presenti. Mettendo in rapporto i due tassi, vediamo quindi come in carcere i casi di suicidi siano oltre 13 volte in più rispetto alla popolazione libera. Oltre all’enorme differenza tra suicidi commessi in carcere e in libertà, possiamo osservare come i due tassi abbiano subito a distanza di qualche anno un sensibile cambio di tendenza ma in direzione opposta. Se infatti il tasso di suicidi nella popolazione libera nel 2019 ha registrato un notevole calo rispetto al 2016, il tasso di suicidi in carcere nel 2019 è invece cresciuto sensibilmente rispetto a tre anni prima.

Da Rapporto Antigone

Il carcere è troppo spesso un luogo di pura disperazione da cui si rischia di non uscire, di sbattere contro la tentazione della morte autoinflitta. Ma proprio la parola ‘disperazione’ è il filo rosso che collega questo dato agghiacciante con la storia dell’uomo di Messina. Anche lui, dopo aver bussato due volte invano alla porta della casa circondariale, è andato via, rassegnato, e in preda alla disperazione.

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Anche la sua potrebbe tramutarsi in una morte, se non per suidicio, per essere ridotto a nulla. I suicidi dietro le sbarre e questa disperazione fuori dal carcere sono i frantumarsi di quella ‘finalità rieducativa della pena’ per cui tanto si battono le associazioni che operano per offrire ai detenuti un percorso di ritorno alla vita da uomini liberi. Perché libero non vuol dire ‘la pena da scontare è finita’. Per essere libero un uomo deve sentirsi di nuovo accolto come presenza che contribuisce al bene di quella comunità che ha tradito. Un alloggio, un lavoro, legami di amicizia: senza questi beni di prima necessità un uomo muore anche se è giuridicamente libero.

E se non muore facilmente ricade nella tentazione di essere recidivo nel male. Ma la colpa, a questo puno, non è tutta sulle spalle del singolo che ricade nell’illecito.

Perché quella famosa seconda possibilità ci pare così ragionevole solo quando siamo noi a implorarla?

Bussate e vi sarà aperto

Mi torna in mente l’inizio di uno dei romanzi più classici, I miserabili. Il riferimento letterario non è sfoggio di erudizione ma tentativo di innestare la cronaca nel corpo umano universale. Qui non è in ballo solo una discussione sul sistema carcerario italiano. Se questa storia ci attira è per quel nervo scoperto che evangelicamente è riassunto nel “bussate e vi sarà aperto”.

Tutto abbiamo una prigione da cui scappare. A tutti sarà capitato, almento una volta, di sentirsi davvero liberi solo nell’ospitalità dello sguardo di un amico, o di un genitore, o di un maestro. Qualcuno che ci ha accolto nella sua casa – letteralmente o metaforicamente – e anche solo con una parola ci ha tirato fuori dalle catene dei nostri sensi di colpa o incubi. Tutti, quando ci troviamo a bussare, ci rendiamo conto della benedizione che è una porta che si apre.

Il capolavoro di Hugo parte da qui, dal miracolo di bene che innesca una porta lasciata aperta a un galeotto. Jean Valjean – reietto dal mondo intero – viene accolto dal vescovo di Digne, un uomo di fede che non chiudeva mai l’uscio di casa. Avendo conosciuto solo il sopruso e la violenza, Valjean è stupito dell’accoglienza. Si aspettava di essere respinto. E ne riceve in risposta quella che è la misura più disarmante e potente che il cristianesimo porta ancora oggi nel mondo.

“Signor curato, siete buono. Non mi disprezzate, mi accogliete in casa vostra, accendete per me le vostre candele. Eppure, non vi ho nascosto da dove venivo e che sono un miserabile”.

Il vescovo gli si sedette vicino, gli toccò con dolcezza la mano.

“Non avevate bisogno di dirmi chi eravate; questa non è la mia casa, è la casa di Gesù Cristo. Questa porta non chiede a colui che entra se ha un nome, ma se ha una sofferenza. Voi soffrite, avete fame e sete, siate il benvenuto… Che bisogno ho di sapere il vostro nome? D’altronde prima che me lo diceste ne avevate uno che conoscevo”.

“Davvero? Sapevate come mi chiamo?”

“Sì, vi chiamate mio fratello”.

Da I miserabili
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