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“È schiavitù”: “padre” del primo bambino in provetta contro la maternità surrogata

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FIV

© RusAKphoto - shutterstock

Mathilde De Robien - pubblicato il 03/05/22

Noto per il suo lavoro, che ha portato alla nascita del primo bambino in provetta francese nel 1982, il professor René Frydman è un ardente difensore delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita, ma la sua lotta per la fertilità ad ogni costo si ferma di fronte alla maternità surrogata, che definisce “prostituzione” e “schiavitù”


Quando le parole per denunciare la maternità surrogata (nota anche come “utero in affitto”) vengono dalla bocca del padre scientifico del primo bambino nato in provetta, sono ancora più forti. Pur essendo andato tanto lontano nell’aiuto alle coppie non fertili per concepire, il professor René Frydman, 78 anni, ha sempre ritenuto la maternità surrogata la linea rossa da non attraversare.

Nel suo ultimo libro, Le Dictionnaire de ma vie (Edizioni Kero), sviluppa un’argomentazione mordace e convincente in base alla quale la maternità surrogata non è altro che un “abbandono organizzato” del bambino e una forma di schiavitù moderna delle donne.

René Frydman è stato all’avanguardia durante quelli che definisce “i 40 anni gloriosi della ginecologia”. Nel 1973 ha firmato il manifesto dei 331 medici che hanno ammesso di aver realizzato un aborto, all’epoca un crimine. Nel 1982, con il biologo Jacques Testart, ha permesso la nascita del primo bambino in provetta in Francia, concepito con fecondazione in vitro (FIV), dopo quella dei primi bambini francesi concepiti con ovociti congelati. Nel marzo 2016, ha firmato un articolo su Le Monde con 130 medici e biologi che hanno riconosciuto di aver aiutato coppie omosessuali ad avere figli in violazione della legge. La sua ultima battaglia riguarda l’estensione della riproduzione medicalmente assistita a tutte le donne, anche single o omosessuali.

Quando si tratta di maternità surrogata, però, non è più il “diritto” di avere un bambino. “Com’è possibile che avere un bambino sia un diritto? Non è scritto in nessuna costituzione del mondo”, indica nel suo ultimo libro, denunciando fermamente il “diritto alla paternità” in voga al giorno d’oggi.

Abbandono organizzato

René Frydman comincia la sua accusa alla maternità surrogata sottolineando tutta l’ipocrisia prevalente e crescente nel nascondere e ignorare la realtà di questa pratica: se negli anni Ottanta le persone parlavano di “madri surrogate”, l’espressione “maternità surrogata” è apparsa negli anni Novanta. “Da un affitto siamo passati a una donazione”, dice, “o all’arte di avvolgere la gestazione con affetto per renderla più presentabile”. Un altro sforzo e parleremo di amore e generosità. È questo che implica di fatto l’attuale formula di “maternità surrogata etica”.

Per il professore, il principio della maternità surrogata non è affatto di donazione, ma di abbandono. Un abbandono programmato e intenzionale, al contrario dell’abbandono di un bambino da parte di una donna che lo dà in adozione.

“Da parte di una madre, non c’è il desiderio di concepire il bambino con l’unico obiettivo di abbandonarlo, ma è quello che accade con la maternità surrogata. È un abbandono organizzato, programmato e monetizzato. Peggio, nella misura in cui interviene la medicina, è un abbandono per prescrizione medica”.

Prostituzione e schiavitù

Il professore resta sorpreso per la mancanza di reazione delle femministe in relazione al tema della maternità surrogata. A suo avviso, è “una forma grave di violenza contro le donne”. Oltre alle sofferenze psicologiche per la donna (ignorare la gravidanza, non attaccarsi al bambino…), è la commercializzazione del suo corpo.

“Disporre del corpo di una donna per una media di dodici mesi come macchina per la procreazione non è altro che l’alienazione degli altri, prostituzione, schiavitù”. Il medico ha fatto appello ai Paesi che permettono la maternità surrogata perché la sradichino in nome del principio fondamentale della non commercializzazione dell’organismo.

“Sarebbe un passo avanti importante come l’abolizione della pena di morte. Possiamo edulcorare in qualsiasi modo la questione, ma non cambierà il fatto che è una forma di schiavitù. Autorizzarla è un regresso, sarebbe negare il valore del progresso, questo umanesimo che vuole che proteggiamo al di sopra di tutto i più deboli”. Una formula quasi evangelica.

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