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Mario Melazzini: un malato di Sla che deve la sua rinascita a Giobbe

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Mario Melazzini

Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 11/05/22

Nel volume autobiografico "Lo sguardo e la speranza" l'oncoematologo (già assessore alla sanità in Lombardia) racconta come è uscito dal momento più buio della sua vita grazie al Patriarca biblico

Ritrova Dio nel momento più buio della sua vita, ovvero dopo la diagnosi di Sclerosi Laterale Amiotrofica, la temuta Sla, una malattia che immobilizza gradualmente tutti i muscoli del corpo. E lo fa grazie ad un sacerdote gesuita, e sopratutto grazie alla lettura di un libro dell’Antico Testamento, quello di Giobbe, che ha ridato vigore alla sua esistenza.

La rinascita di Mario Melazzini è concentrata in questi due passaggi. Che ha voluto rendere noti nel libro autobiografico Lo sguardo e la speranza” (edizioni San Paolo). L’onco-ematologo di fama internazionale, è stato assessore alla Regione Lombardia e oggi è presidente della AriSLA, Fondazione Italiana di Ricerca per la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Melazzini convive con la Sla dal 2003.

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Ron e il gesuita

«Era la primavera del 2004 – ricorda – poco più di un anno dopo la diagnosi definitiva. Avevo allontanato tutti ma accanto a me, con discrezione, rimanevano due persone: l’amico Rosalino, Ron, e Silvano, un sacerdote gesuita che conoscevo da anni e che avevo sempre considerato la mia guida. Silvano viveva a Villa Pizzone, in una comunità di Milano. All’epoca, era il padre spirituale del cardinale Martini. Da lui mi aveva portato Ron: “Ti piacerà, vedrai”, mi aveva detto».

Il regalo inatteso

Durante quei primi incontri, Mario Melazzini e padre Silvano avevano scoperto di avere in comune la passione per la montagna ed erano diventati amici. «Per me, che avevo sempre dato per scontata la mia identità cattolica, senza farmi troppe domande, ma che da quando mi ero ammalato avevo smesso di andare in chiesa, Silvano era diventato un punto di riferimento importante. Gli raccontavo dei miei problemi con mia moglie Daniela, dei miei dubbi sulla possibilità di vivere con la malattia. Silvano non mi chiedeva di pregare. Mi invitava piuttosto a prendere tempo, per imparare a conoscere la nuova dimensione che mi trovavo a vivere. E un giorno mi regalò la sua Bibbia: “Se hai voglia, leggi il Libro di Giobbe” buttò lì, quasi per caso».

Le “prove” di Giobbe

Silvano consigliò a Mario di staccare la spina, allontanarsi da tutto e tutti per un po’. E Mario accettò il consiglio trasferendosi nella casa di Livigno, ai piedi delle Alpi. Con lui c’era solo una colf rumena e nessun altro. Fu un periodo di lunga riflessione. In cui Mario lesse il libro indicato dal sacerdote. «Giobbe è l’uomo paziente che affronta una serie di prove: nella mia immaturità e incapacità di capire cosa significasse quel libro, lo avevo letto come qualcosa che andava a buon fine. Mentre leggevo, mi sembrava che quel racconto rispecchiasse il mio vivere quotidiano, compresa la presenza degli amici un po’ saccenti, che ti dicono sempre quello che puoi o devi fare».

Le imprese “giorno per giorno”

Durante quei giorni solitari, le prove a cui Giobbe veniva chiamato diventavano le imprese «che nella mia quotidianità ero chiamato a compiere. Ogni volta che a lui veniva tolto qualcosa di materiale, ero io che mi ritrovavo privo di quello che avevo. Però finiva bene, in qualche modo: a Giobbe veniva restituito quello che aveva perso, sotto altra forma, per la fiducia da lui riposta nel Mistero che lo accompagnava».

Una nuova voglia di vivere

A un certo punto, rammenta Mario, «ho iniziato a capire qualcosa di quello che il testo mi aveva trasmesso. Indipendentemente da quello che gli accade, Giobbe comprende che è importante vivere e continuare a vivere. Non esalta la sofferenza ma coglie l’essenza della vita, la bellezza di stare al mondo in qualsiasi condizione. Ho elaborato questo concetto in due parole: essere ed esistere. È importante esistere, con la consapevolezza che tutto ti può accadere e che quello che accade a volte apre anche un percorso di forte sofferenza».

Il “ritorno” di Mario

Così Melazzini ha imparato a considerare la vita un dono che lo accompagna nonostante la Sla, «una grande opportunità che mi viene data e che deve essere percorsa fino alla fine. La fine è la morte, di cui abbiamo paura ma che si presenta in continuità con il percorso di vita che facciamo. Però la morte è un inizio. Quando ho capito questo, mi si è aperto un mondo». E dopo Livigno è tornato a casa a Milano, dalla moglie e dai figli ed ha ricominciato a vivere. Oggi sono trascorsi 19 anni da quando gli è stata diagnosticata la Sla e non ha alcuna voglia di mollare.

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