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Lamia, mamma e pediatra: “in corsia prego per i bambini come fossero figli miei”

Dr. Lamia Dahdah - bambino gesu hospital - pediatrician - allergist

Antoine Mekary | ALETEIA

Silvia Lucchetti - pubblicato il 01/06/22

Lamia, aveva solo 7 anni quando, di fronte alla grave malattia del fratellino poi deceduto, decise che da grande avrebbe fatto la pediatra. La grande fede trasmessale dalla famiglia e l'esempio della spiritualità paterna rappresentano la sua vera forza nel confrontarsi con il dolore dei bambini

Ho avuto il grande piacere di intervistare la dottoressa Lamia Dahdah, libanese di origine e italiana di “adozione”, pediatra dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma e moglie del nostro Responsabile Iconografia e fotografo Antoine Mekary. Di Lamia mi ha colpito la pacatezza, il tono di voce caldo e profondo, la capacità di raccontarsi con pudore, l’amore nel parlare dei suoi pazienti. Lei è una moglie, una madre, una dottoressa che ogni giorno incontra difficoltà e si confronta con il dolore dei più piccoli e delle loro famiglie. Da donna di fede prega e si affida alla Divina Provvidenza, come gli ha insegnato suo padre. Ecco la nostra intervista.

Cara Lamia, grazie per la disponibilità all’intervista. Ti va di presentarti?

Sono Lamia, sposa e mamma di due maschietti. Ho 41 anni e come pediatra dell’Ospedale  Bambino Gesù lavoro nel campo dell’allergologia. Provengo da un paese di montagna del nord del Libano, Zgharta (Ehden). La storia con l’Italia inizia da mio padre. Dopo quattro anni di specializzazione in matematica a Parigi dal 1970 al 1974, decise di trasferirsi a Milano al Politecnico per studiare ingegneria civile. Dopo questo lungo percorso di studi ha iniziato a lavorare, costruendo e mantenendo tante amicizie in Italia. Tornava in Libano ma non spessissimo, una delle ultime volte si è innamorato di mia madre (sono cugini e hanno 17 anni d’età di differenza) e si sono sposati. Il primo anno di matrimonio lo hanno trascorso a Milano, poi sono rientrati a causa della guerra in Libano e quando sua sorella è rimasta vedova ha deciso di restare per aiutarla. Questo andirivieni di mio padre con l’Italia per motivi di lavoro è continuato a lungo, fino a che nel 1990 ci siamo trasferiti tutti a Milano: io avevo 10 anni. Ci siamo stabiliti lì per due anni e poi siamo rientrati in Libano. Dopo, io e i miei fratelli uno alla volta siamo tornati a Milano per fare l’università. Nel settembre del 1998 mi sono iscritta a Medicina. Siamo cinque figli; con il mio fratellino morto a tre anni per una rara cardiopatia congenita, saremmo stati in sei. Durante la specializzazione, per approfondire il campo dell’allergologia i miei prof mi hanno mandato a frequentare la divisione pediatrica diretta dal dottor Fiocchi che oggi è il primario del Bambin Gesù. Quando gli hanno proposto di venire a Roma per dirigere l’unità operativa di allergologia mi ha chiesto se volevo venire anche io, e così mi sono trasferita a Roma. Era il dicembre del 2012. 

Quando hai conosciuto tuo marito?

Mio marito Antoine è anche lui di Zgharta (Ehden): l’ho conosciuto a Milano, era venuto anche lui in Italia per studiare. Quando mi hanno proposto di venire a Roma lui si era appena laureato e doveva iniziare a cercare lavoro. Mi sono specializzata nell’aprile 2013, ed è così iniziata la mia collaborazione ufficiale con il Bambino Gesù. Il 6 luglio del 2015 ci siamo sposati a Roma, e abbiamo avuto la gioia di avere con noi le rispettive famiglie e gli amici libanesi oltre che quelli italiani. A gennaio 2016 mi hanno assunta a tempo indeterminato, e dopo pochi mesi sono rimasta incinta del nostro primo figlio: Mattia. Il secondo si chiama Nicola. Nicola è un nome che mi è sempre piaciuto, e in più Antoine è nato il giorno in cui si festeggia questo Santo, che fa da ponte tra occidente e oriente: un collegamento a me molto caro. Quando ero prossima al parto dovevo programmare un cesareo perché con il primogenito avevo dovuto farlo d’urgenza. Il mio primario, il dottor Fiocchi, mi dice: “Lamia chiedi se puoi farlo il 17 gennaio, Sant’Antonio”. E così Nicola è nato il giorno dell’onomastico di suo padre e Antoine è nato il giorno dell’onomastico di suo figlio. 

La fede ti è stata trasmessa dalla tua famiglia?

La fede mi è stata trasmessa dalla famiglia in senso stretto e più ampio. Non solo dai miei genitori ma anche dai nonni, zii, amici, conoscenti. E devo dire anche dal luogo stesso dal quale provengo, con le sue chiese, la sua storia. È un luogo molto spirituale. Un ruolo speciale l’ha avuto mio papà: era sempre pronto a rispondere alle mie domande, ai miei dubbi. In modo semplice, con parole e frasi comprensibili ad una bambina. Mi ha ancheinsegnato ad affidarmi molto alla Divina Provvidenza. È stato un uomo molto coraggioso, ha preso decisioni importanti nella sua vita. Quando nel ’90 siamo venuti a vivere in Italia ad esempio – eravamo in sei con i miei genitori – il primo viaggio lo abbiamo fatto in macchina. Nel ’92 è nato il mio ultimo fratello e, a soli 16 giorni di vita, abbiamo deciso di tornare con lui in Libano. Mia sorella maggiore vive negli Stati Uniti e ha due gemelli di otto anni, la secondogenita è a Beirut e anche lei ha due figli, io sono la terza, il quarto risiede in provincia di Parma e ha un figlio, e poi c’è l’ultimo. Siamo lontani l’uno dall’altro, ma molto legati, ci sentiamo spesso. Mio padre ha avuto tanti problemi di salute, tumori compresi. Ha superato tutto e purtroppo poi si è spento dopo un trauma cranico. È morto 11 anni fa. È caduto il venerdì prima delle domenica delle Palme lavorando in casa mentre stava sistemando le tende. È stato ricoverato in terapia intensiva durante la settimana santa e si è spento piano piano: è morto il venerdì santo. Era una persona molto speciale, molto spirituale, molto credente. Ricordo ancora con tanto piacere e nostalgia come pregavamo insieme. Nel mese mariano il rosario tutti i giorni, i fiori freschi nell’altare per la Madonna. Anche la Quaresima era un momento molto sentito per noi, con i digiuni e le preghiere. Mio papà rimane un grande esempio per me, era molto devoto a Padre Pio e San Francesco. I miei genitori hanno avuto prima figlie femmine, e poi sono nati i maschi. Io ero la terza femmina e quando sono nata tanti ne hanno fatto una tragedia: c’era la mentalità del maschio che deve portare avanti il cognome della famiglia. E invece mio padre era felicissimo. L’estate 2020 con Antoine e i bambini siamo stati ad Assisi, e nonostante le restrizioni a causa del Covid siamo riusciti ad entrare e scendere a fare la visita nella cripta dove c’è la tomba del Santo: per me è stato particolarmente emozionante, ricordando che ci aveva portato lì nel 91. Giù nella cripta c’era una frate con cui abbiamo parlato ed è stato bello raccontargli di mio padre. Gli abbiamo chiesto di offrire una messa in suo suffragio e sono stata molto felice. Mio papà si chiama Antoine come mio marito.

Come riesci a conciliare la famiglia con il lavoro?

Non è semplice conciliare il lavoro e la famiglia. Ho sempre la sensazione e la paura di non fare abbastanza, di trascurare qualcuno o qualcosa. Però poi un modo si trova. Nonostante sia molto precisina, sono dovuta entrare nella logica di non poter fare tutto in maniera perfetta. Ho imparato a tralasciare i dettagli poco importanti e a concentrarmi sulle priorità. Mi sono riproposta che quando ho tempo da dedicare alla mia famiglia devo farlo totalmente, senza farmi distrarre da altro. Quando sono a casa  – invece di mettermi a lavare i piatti – gioco con i miei figli cercando di compensare il tempo che sottraggo loro: le operazioni di pulizia vengono dopo. Non potrei farcela senza mio marito che è presente quando non ci sono ed è mio alleato. Ogni tanto i figli mi dicono: mamma perché devi andare a lavoro? Mattia ha 5 anni e mezzo e Nicola 3. Ovviamente essendo piccoli non condivido con loro la parte più dura del mio lavoro: il dolore nell’incontrare e occuparmi anche se solo per poche ore di bambini terminali ad esempio. Mattia è più sereno di Nicola che fatica un po’ di più a comprendere che non sono presente perché vado a lavorare in ospedale. Però ho notato che quando capita che mi accompagnano a lavoro sono molto felici. Mostrargli dove curo i bambini come loro li ha calmati, ha fatto accettare maggiormente loro che la mamma non c’è perché sta in quel palazzo a fare la dottoressa.

Quando è nata la tua vocazione a diventare pediatra?

Ho “scelto” di diventare pediatra che non avevo nemmeno 7 anni, alla morte di mio fratello. Lui è nato con una cardiopatia congenita rara che è stata riconosciuta quando aveva sei mesi. Da allora è iniziato il suo calvario. Prima un intervento chirurgico a Parigi, quindi nei sei mesi successivi la famiglia si è dovuta dividere. Rientrato in Libano era sottoposto ad un continuo di visite, controlli, esami. Io me lo ricordo ancora quando rientrava a casa tutto martoriato dai tentativi di prelievi, accessi venosi: vedevo che soffriva. Era il quinto figlio, nato nell’84. Poi nel ’92 è nato l’ultimo fratello. I miei genitori erano talmente provati dal lutto che non pensavano più di avere altri figli. Poi invece questa straordinaria sorpresa della vita. 

Come ti aiuta la fede nel lavoro con i tuoi piccoli pazienti?

Nella professione ho sempre cercato di immedesimarmi nelle situazioni che vivono i bambini e i loro genitori. Da quando sono mamma lo faccio ancora di più, mi viene spontaneo. Questo aiuta a creare un rapporto di fiducia necessario per le terapie, i controlli, le visite. La fede mi aiuta perché quando so che devo affrontare delle giornate difficili, prima di iniziare il lavoro prego. Prego gli angeli custodi dei miei figli, e lo faccio pensando contemporaneamente anche ai miei piccoli pazienti, come fossero Mattia e Nicola. E prego il Signore di farmi trovare sulla mia strada le persone giuste al momento giusto per risolvere i problemi. Ci sono dei momenti talmente difficili in cui dico: “Signore, da sola non ce la posso fare, ti prego aiutami”. 

Che mondo sogni per i tuoi figli?

Sogno un mondo meno complicato, dove ci sia più equità. Vorrei un mondo più sereno per i miei figli. Vorrei che fossero felici ed essere una mamma che non pretende troppo da loro. Spero di fare come i miei genitori hanno fatto con me: lasciarli liberi di scegliere. 

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