L’immagine dei quei futuri chierici installati negli scranni [in occasione delle confermazioni, N.d.R.], lontani dai fedeli, restituiva un’immagine molto clericale e non adeguata alla vostra condizione di seminaristi, i quali restano dei fedeli laici.
Ecco la spiegazione data dall’arcivescovo di Tolosa, arrivato quattro mesi fa, per giustificare la propria richiesta. Mons. de Kérimel auspica che i seminaristi del proprio seminario, il quarto di Francia, non portino l’abito talare, neanche durante le liturgie.
Si sa che la talare è talvolta fonte di tensioni, essendo percepita come un segno di reazione. Al contrario, i suoi apologeti vi vedono il distintivo di un cattolicesimo consapevole e missionario, che permette al prete di essere identificabile, per sé stesso e per gli altri. È questa ad esempio la posizione della Communauté Saint-Martin, che talvolta le è valsa delle critiche.
Per quanto riguarda i seminaristi, la faccenda è più complessa: essi sono effettivamente un po’ “acqua di foce”, perché sono effettivamente e perfettamente laici, ma hanno già un piede nella vita del prete, dal momento che al sacerdozio si preparano. Eppure non sono chierici, in senso proprio e stretto, se non dal momento del diaconato. Prima di allora, essi non sono vincolati alla norma stabilita dal Diritto Canonico:
I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali.
CIC 284
L’abito dei seminaristi non è dunque regolato da una disposizione particolare, bensì da semplici usanze. In Francia, nei seminari diocesani, la talare è poco portata, a parte (in rare occasioni) nella liturgia, precisamente come potrebbero portarla dei ministranti adulti, poiché in abbinamento con la cotta essa costituisce un abito corale.
La Communauté Saint-Martin, da parte sua, ha fatto la scelta di un’evoluzione chiara, che accompagni progressivamente il dono di sé fatto dagli aspiranti sacerdoti: indossata nella liturgia a partire dall’ammissione tra i candidati agli ordini sacri, essa diventa abito comune all’interno del seminario di Évron a partire dai ministeri istituiti, e poi anche fuori dal seminario a partire dal diaconato (ossia dall’ingresso effettivo nell’ordine sacro).
Insomma, la questione non è risolvibile in breve: resta il fatto che l’abito ecclesiastico riveste un’importanza sottolineata recentemente anche dal Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, del 2013:
In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico[247]. Il presbitero dev’essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo[248], la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa.
L’abito ecclesiastico è il segno esteriore di una realtà interiore: «infatti, il sacerdote non appartiene più a se stesso, ma, per il sigillo sacramentale ricevuto (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1563, 1582), è “proprietà” di Dio. Questo suo “essere di un Altro” deve diventare riconoscibile da tutti, attraverso una limpida testimonianza. […] Nel modo di pensare, di parlare, di giudicare i fatti del mondo, di servire ed amare, di relazionarsi con le persone, anche nell’abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale»[249].
Per questa ragione, il sacerdote, come il diacono transeunte, deve[250]:
a) portare o l’abito talare o «un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali»[251]; quando non è quello talare, deve essere diverso dalla maniera di vestire dei laici e conforme alla dignità e alla sacralità del ministero; la foggia e il colore debbono essere stabiliti dalla Conferenza dei Vescovi;
b) per la loro incoerenza con lo spirito di tale disciplina, le prassi contrarie non contengono la razionalità necessaria affinché possano diventare legittime consuetudini[252] e devono essere assolutamente rimosse dalla competente autorità[253].
Fatte salve situazioni specifiche, il non uso dell’abito ecclesiastico può manifestare un debole senso della propria identità di pastore interamente dedicato al servizio della Chiesa[254].
Inoltre, la veste talare – anche nella forma, nel colore e nella dignità – è specialmente opportuna perché distingue chiaramente i sacerdoti dai laici e fa capire meglio il carattere sacro del loro ministero, ricordando allo stesso presbitero che è sempre e in ogni momento sacerdote, ordinato per servire, per insegnare, per guidare e per santificare le anime, principalmente attraverso la celebrazione dei sacramenti e la predicazione della Parola di Dio. Indossare l’abito clericale funge inoltre da salvaguardia della povertà e della castità.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]