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Pregare per la pioggia sui campi? Non solo i cristiani possono: devono!

DONNA RIDE PIOGGIA OMBRELLO COLORATO

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 28/06/22

Sarebbe pagano – secondo alcuni – l’implorare dal Cielo clemenza per le colture, per i lavoratori e per i consumatori. È vero il contrario: pagana è la tentazione (teologica!), che costantemente riaffiora, di affermare l'estraneità di Dio alle “cose terrene”. Il cristianesimo esige però la conversione come sinergia dell’uomo con la grazia divina.

Per la salubrità del clima,
per l’abbondanza dei frutti della terra
e per tempi di pace,
preghiamo il Signore. 

Per i naviganti, i viandanti, i malati,
i sofferenti, i prigionieri
e per la loro salvezza,
preghiamo il Signore. 

Per essere liberati da ogni afflizione,
flagello, pericolo e necessità,
preghiamo il Signore. 

Irinikà della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo

Di tanto in tanto ci si torna a chiedere se abbia senso – ed eventualmente quale – pregare per cose come la precipitazione della pioggia (in tempo di siccità, beninteso): probabilmente l’ultimo ad aver posto un gesto tale da sollevare il tema è stato mons. Mario Delpini, arcivescovo metropolita di Milano, che sabato 25 giugno si è recato a Trezzano sul Naviglio, Mediglia e Trezzano Rosa per chiedere al Cielo di elargire «l’acqua e il refrigerio alla terra assetata». 

Le condizioni della preghiera secondo mons. Delpini 

I tre distinti (ma collegati) momenti di preghiera sono iniziati non a caso di fronte alla Madonna della Bassa: san Carlo Borromeo aveva deputato quel luogo di culto a presidio spirituale del mondo rurale, e quattro secoli (era il 1954) dopo Ildefonso Schüster eresse la chiesetta a santuario; Papa Montini, da parte sua, non mancò di lasciare il proprio segno nel posto presenziando nel 1976 a una veglia di preghiera per le campagne riarse. 

L’idea di pregare per la pioggia, infatti, desta sempre un po’ di curiosità – ha ben illustrato Paolo Viana su Avvenire –, anche se non è una cosa nuova e neanche un’esclusiva cattolica. […] la pratica ha anche radici precristiane e quando il cristianesimo si diffuse nel Mediterraneo trovò un cospicuo armamentario di riti da “convertire”.

Tutto questo è certamente vero e indiscutibile. Forse il passaggio successivo potrebbe formularsi in modo meno brusco: 

Ci provò Papa Liberio nel quarto secolo, ma ci vollero cent’anni e un concilio – quello di Orleans nel 511 – per arrivare alle rogazioni, che sono preghiere, processioni e atti di penitenza diretti a propiziare un buon raccolto, che solo tre secoli dopo si diffondevano in tutta Europa. Nel Medioevo, da allora, molti vescovi ricorsero a una processione o un pellegrinaggio “ad petendam pluviam”, ossia per invocare la pioggia. Il pellegrinaggio dell’arcivescovo di Milano si inserisce dunque in una tradizione molto antica, suggellata anche da una famosa preghiera composta per ottenere il dono della pioggia da S.Paolo VI nel 1976, durante un grave periodo di siccità.

Stando semplicemente a queste considerazioni ci si potrebbe fare l’idea, la quale sarebbe erronea, per cui le rogazioni sarebbero state la formulazione pastorale di un calcolo teologico-politico svolto a tavolino dagli ecclesiastici tra il IV e il VI secolo, il cui fine concreto sarebbe stato quello di portare i pagani a chiedere il battesimo cristiano. Ritornello già letto e riletto in molte salse, ma non per questo meno destituito di fondamento sostanziale: già il rimando tra un papa attivo a partire dal 352 e un concilio tenutosi nel 511 (ovviamente liberi da vincoli di stringente causalità) dovrebbe suggerire al lettore avveduto che a sostenere l’idea che i cristiani potessero (e anzi che dovessero) pregare per cose come la pioggia fossero in molti, nel clero e tra i fedeli laici. 

In tal senso appare ingiustamente semplicistica la sintesi proposta, peraltro includendo un virgolettato del Vescovo: 

L’idea di pregare per ottenere un fenomeno naturale, come ha commentato lui stesso, «è una immagine infantile di Dio, che non è un “mago” che risolve i problemi ma un padre che abbraccia i figli».

L’immagine infantile di Dio c’è senza dubbio se la preghiera per i fenomeni atmosferici è disgiunta da quella per una grazia di conversione che conformi gli uomini alla ratio del mondo: giustamente infatti Delpini accenna a crisi climatica, riscaldamento globale e stili di vita. Dunque l’Arcivescovo dimostra che esiste un modo per cui ai cristiani è lecito (e anzi doveroso) pregare per il buon tempo. Come attestano anche gli antichi irinikà bizantini riportati in testa di articolo. 

I riferimenti scritturistici e il tema teologico  

La ragione prima e più elementare di questo si trova nel fatto che la storia sacra riportata dal canone giudaico-cristiano pullula di manifestazioni del divino legate alla dimensione del tempo atmosferico, e se troppo superficialmente ci affrettassimo a bollare quelle (numerose) pagine come “espressione di una religiosità arcaica, ancestrale, ancora non purificata dal lume della ragione”, ci staremmo dimostrando piuttosto devoti discepoli di pregiudicati del XIX secolo che persone accese dall’incontro con il Soprannaturale (che il soprannaturale non esista ovvero che – praticamente è lo stesso – non si mostri nella storia è la tesi fondamentale di tutta la temperie positivistica e modernistica). 

Ogni elenco sarebbe corto: si prenda una concordanza biblica a caso e si cerchino i lemmi indicanti i fenomeni atmosferici (siccità, pioggia, vento, nuvole, acqua…), e ci si troverà nel folto di una selva di citazioni dal Pentateuco ai Vangeli, passando per i Libri Storici, per i Salmi, i libri Sapienziali, e senza escludere altri passi neotestamentari. La questione teologica sottesa è una e duplice, e appositamente la riproponiamo con la domanda dei discepoli dopo la tempesta sedata: «Chi è questo, a cui anche il vento e il mare obbediscono?». Ossia: 

  1. il creato è ricettivo alla voce di Dio? (e la risposta [cristiana] è affermativa) 
  2. la voce di Dio si rivolge al creato? (e la risposta [cristiana] è ancora – cosa molto meno scontata – affermativa) 

La riflessione dei pagani antichi sulla provvidenza

Come è stato detto, tale tema è ben lungi dall’essere presente unicamente nell’alveo della Rivelazione positiva di Dio (cioè nelle tradizioni giudaica e cristiana): si avrebbe però un’inferenza fallace se deducessimo che, e converso, in ogni formulazione religiosa pre-cristiana e/o pagana si avrebbero invocazioni “teurgico-metereologiche” (ossia che presumono di condizionare il tempo atmosferico mediante l’invocazione alla divinità). In parole povere: non è che i pagani (diciamo i greco-romani su cui prevalentemente impattò la prima evangelizzazione cristiana) credessero tutti nell’utilità di pregare gli dèi per la pioggia o per un buon raccolto. Se volessimo formalizzare le opinioni della classicità greco-romana sul tema teologico della “provvidenza” troveremmo un ampio ventaglio di alternative: 

  • da una parte quelli per cui assolutamente nulla sfugge alla provvidenza, al punto anzi che non esiste libertà possibile (e il bello è che tale determinismo si coniugava il più delle volte con un’idea impersonale della divinità: insomma l’uomo non è libero ma nessuno sceglie per lui – lo determinerebbero la materia o qualche forma di “Necessità”); 
  • dall’altra quelli per cui assolutamente nulla cade sotto la provvidenza, per il fatto che o gli dèi non esistono o bellamente si disinteressano delle vicende umane (anche qui la posizione è variamente sostenuta da pensatori teisti e da pensatori atei). 

Tra questi due estremi ci sono perlomeno: 

  • quelli per cui la provvidenza si limita alle rationes seminales dell’universo, come a dire che la divinità crea (dal nulla, dal caos, da sé, in sé… si trova di tutto!) il mondo stabilendo le leggi matematiche e fisiche e poi lo lascia a sé stesso (i moderni lo avrebbero detto “il Divino Orologiaio”, della cui presenza e assistenza l’ormai costruito artificio meccanico non ha necessità di giovarsi); 
  • quelli per cui la provvidenza scende anche nella storia, con la/le divinità benignamente rivolta/e ai destini umani… ma solo nei loro momenti fondamentali, dunque non con riguardo morale/spirituale a ogni singolo atto umano. 

Anche qui un’antologia comporterebbe perlomeno un libro (e bello spesso), ma dovendo scegliere un passo proporrei una pagina dal primo del secondo e del terzo della terza Enneade di Plotino (non a caso redatti sotto al titolo “la Provvidenza”), perché il campione del neoplatonismo ebbe a confrontarsi con il cristianesimo (gnostico e cattolico-ortodosso), e la sua produzione è da intendersi (anche) come una sontuosa ricapitolazione della tradizione platonica posta come alternativa dialettica alla proposta cristiana. Ecco dunque il testo estratto: 

Si assuma, invece, una provvidenza che potremo chiamare dell’universo, e da questo presupposto si traggano le conseguenze. Se affermassimo che il cosmo che prima non c’era è venuto all’essere a un dato momento, finiremo con l’ammettere nel ragionamento la stessa provvidenza che avevamo riservato agli individui: ossia un progetto calcolato di Dio sul come generare questo universo, nella forma più perfetta possibile.

Ma noi sappiamo che il nostro cosmo è eterno e che non potrà mai venir meno; pertanto, con tutte le ragioni e in maniera coerente, possiamo ben affermare che, nel caso dell’universo, la provvidenza consiste nella conformità con l’Intelligenza, perché questa è precedente non già secondo il tempo, ma per il fatto che l’universo viene dall’Intelligenza.

Si può ben dire che quest’ultima è precedente per natura ed è causa dell’universo, in un certo senso essendone il modello archetipo, mentre l’universo è solo la copia dell’Intelligenza, esiste in grazia di essa e le è sempre subordinato.

[…] 

A un essere veramente felice basterebbe restare in se stesso ed essere quello che è; al contrario, un disperdersi in mille imprese non ci metterebbe al sicuro dall’agitazione che nasce da quelle. Invece, quell’essere gode di una tale serenità che proprio con il suo non fare realizza opere straordinarie, e con il suo permanere in sé compie azioni eccellenti.

Plotino, Enn III,2 

Ci sarebbero mille sfumature e precisazioni da aggiungere, ma in sostanza non si erra troppo affermando che per Plotino (e per moltissimi altri filosofi antichi) la provvidenza è appunto l’Intelligenza (divina, ma non per questo necessariamente creatrice) al quale l’universo si conforma. 

Il concetto andrebbe completato almeno con quelli contenuti negli altri trattati della medesima enneade (in particolare quello sul destino e quello sul demone), ma nel complesso esso risulta molto più utile per rendere ragione del male e del disordine nel mondo – sul piano universale – e delle colpe dei singoli – sul piano individuale – che a dirci se e in che modo la divinità possa agire in nostro favore rispondendo a nostre specifiche domande. 

A differenza di altri neoplatonici, peraltro, come ad esempio Giamblico e Proclo, Plotino ebbe accenti sprezzanti per la pratica teurgica, cioè per quelle attività che pretendevano di condizionare le divinità mediante riti e formule verbali. 

L’approccio cristiano al tema 

È noto che di tutta la sapienza classica, ma per estensione di tutta la “ragione naturale” Dante abbia costituito l’ipostasi nel suo Virgilio. Proprio questa fu l’opinione che, fondandosi su un passaggio dell’Eneide, il Divino Poeta attribuì al suo sublime interlocutore. Parlando di come le preghiere possano avere un effetto, cioè di come Dio possa esaudirle, Dante disse: 

[…] «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi […]» 

Dante, Purgatorio VI,28-30 

Le anime purganti, insomma, che sperano preghiere per progredire verso il Paradiso, si illudono? O diceva male Virgilio (e con lui il meglio della sapienza pagana)? Dante sceglie di salvare entrambi gli assunti, o meglio: Dante ritiene che il cristianesimo non rigetti alcuno degli assunti. Dice Virgilio, rimandando comunque Dante alle ulteriori spiegazioni che sul punto gli farà Beatrice: 

«[…] là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ’l priego da Dio era disgiunto. 

Ivi 40-42 

Il problema del paganesimo non è (sempre e necessariamente) che dice falsità, ma che i suoi dèi – essendo “falsi e bugiardi” – non possono stringere alcuna alleanza con gli uomini: essi sono l’espressione della religiosità naturale degli uomini, già da sempre disposta all’incontro con Dio… ma non per questo esprimono anche l’irruzione del vero Dio nella storia. Questo accade nella storia di Cristo. 

«Ma perch’io non proceda troppo chiuso» – rubando un ultimo verso all’Altissimo Poeta –, vorrei tornare a un altro scrittore ecclesiastico antico, cronologicamente più vicino a Plotino che a Dante, culturalmente già tutto perfettamente cristiano, come Dante e come ogni cristiano di ogni epoca. Nel primo libro del De gubernatione Dei – un’opera scritta da cristiano per illustrare ai cristiani il senso della provvidenza nella storia, guadagniamo due passaggi utili per il nostro discorso: 

  • da un lato torniamo a (sentir) parlare di questioni meno astratte di “Intelligenza” e “Provvidenza dell’universo”; 
  • dall’altro scopriamo che certi pensieri che ci sembrano pagani… vengono da cristiani (e viceversa!). 

Scrive infatti Salviano verso la metà del V secolo: 

Forse però tu pretendi di vedere appunto la prova che in questo mondo Dio trascura ogni cosa e riserva tutto per il giudizio a venire nel fatto che tutti i mali sono costantemente i buoni che li hanno sofferti e i cattivi che li hanno causati? Questa affermazione non viene – come si vede – da un non-cristiano, perché confessa il giudizio futuro di Dio. Quanto a noi, la nostra affermazione che Cristo giudicherà il genere umano non va dissociato dalla convinzione che Dio, fin dal presente, nella misura in cui lo ritiene ragionevole, dirige e dispensa ogni cosa; e così affermiamo che giudicherà nel futuro, non senza insegnare che ha sempre giudicato in questo mondo. Infatti, poiché Dio non cessa di governare, egli non cessa di giudicare, poiché il suo stesso governo è un giudizio. 

Salviano di Marsiglia, De gubernatione Dei, I,17-18 

Quel che il Monaco di Marsiglia introduce nel discorso insieme con il nome di Cristo è il concetto di un Dio personale, il quale cioè valuta se, come, quando e quanto intervenire. Notavamo che l’autore parla da cristiano a cristiani, ma sa fin troppo bene quanto il modo di pensare pagano possa restare in sordina nei suoi interlocutori e in sé stesso (e non perché il paganesimo fosse mainstream – non lo era più da un po’ –, bensì perché esso esprime la religiosità naturale di ogni uomo, ossia anche dei cristiani). Dopo aver enumerato le evidenze ragionali della provvidenza divina (anche con una scansione antropocentrica che, modernamente, diremmo “ur-trascendentale”), chiosa: 

Ma è all’inizio della creazione – dici – che Dio ha fissato e disposto tutto questo; da lì in poi, una volta che l’universo è stato realizzato e compiuto, egli ha allontanato e respinto da sé ogni cura delle cose terrene; sicuramente fuggendo il lavoro, l’ha bandito dalla propria dimora e – vuoi per evitare la noia della fatica, vuoi perché aveva altro da fare – ha trascurato una parte delle cose perché non poteva farsi carico di tutto. 

Ivi, 20 

Si commenta da sé l’ironia del passo, e Salviano non si dilunga oltre nel canzonare l’ingenuo paganesimo dei cristiani cui si rivolgeva. Che si rivolga a cristiani lo conferma il seguito immediato del testo: 

Dio rigetta dunque lontano da sé – tu dici – ogni cura per i mortali: e allora che ragione abbiamo di celebrare un culto divino? Che motivo di onorare Cristo? Che speranza di propiziarcelo? Se Dio, in questo mondo, trascura la stirpe umana, perché ogni giorno tendere le nostre mani al cielo? Perché con frequenti preghiere invocare la misericordia di Dio? Perché correre in chiesa? Perché fare suppliche davanti agli altari? Non abbiamo effettivamente alcuna ragione di pregare, se ci è rifiutata la speranza di ottenere. Vedi dunque quanto è sciocca e quanto è vana l’opinione che promuove una tale credenza: se la si ammette, della religione non si salva più niente. 

Ivi, 21 

Un passaggio che si farebbe bene a meditare lungamente in certe scuole teologiche, le quali delle nostalgie di modernismo paiono farsi un bollino di qualità, come se negare l’irruzione di Dio nel mondo fosse “teologia illuminata”, laddove è solo paganesimo di ritorno (moralmente assai deteriore di quello naturale). 

Uno potrebbe obiettare: «Ma noi non contestiamo che Dio intervenga nella nostra vita, solo che possiamo pregarlo per la nostra santificazione, non perché ci mandi dal cielo l’acqua – opinione motteggiata anche da Aristofane, il quale scherniva i sempliciotti dicendoli disposti a credere che la pioggia fosse “Zeus che orina in un setaccio”». Sarebbe un’obiezione dotta, erudita e apparentemente molto sensata. Non a caso è la stessa che pure Salviano si pose. 

[…] Non dobbiamo formulare alcun voto per il nostro benessere e per la nostra prosperità; anzi, perché la convenienza della preghiera renda accettabile la voce del postulante bisogna che parliamo così: «Signore, non ti domandiamo l’abbondanza in questa vita, né ti supplichiamo per dei beni immediati: sappiamo infatti che le tue orecchie sono chiuse a tali richieste e che non ascolti preghiere di questo tipo; ma ti sollecitiamo solamente per quello che avverrà dopo la nostra morte». 

Poniamo che una tale domanda non sia sprovvista di utilità… ma come si giustifica mediante la ragione? Se Dio si è veramente distolto dalla cura di vegliare su questo mondo ed ha chiuso le orecchie alle preghiere di quanti lo sollecitano – e sicuramente se uno non ascolta per i beni presenti non ascolta neanche per quelli futuri; a meno che non crediamo che Cristo, a seconda della diversità delle preghiere, ci presti orecchio o meno, cioè che le chiuda quando gli chiediamo beni immediati e che le apra quando gli chiediamo beni futuri… 

Ivi, 24 

Il nesso con l’“ecologia integrale” 

Salviano ritenne di aver così sufficientemente ridicolizzato le opinioni “devote” di quanti elevavano la loro mancanza di fede a teorema teologico. Certo il Marsigliese non indulge affatto al pensiero magico, e anzi c’è un punto in cui egli nettamente si distacca dal paganesimo (pur rivendicando la correttezza del domandare alla divinità beni temporali – quale è appunto la pioggia per l’agricoltura): l’identificazione tra la provvidenza e la giustizia di Dio, ossia il suo giudizio

Che vuol dire? Che Dio non interviene a toglierci le castagne dal fuoco a prescindere dalla nostra conversione… e che questa non è tuttavia paragonabile al “do ut des” dei culti pagani, perché la conversione del cristiano è la conformazione dell’uomo all’ordine del creato. Ecco che il discorso cristiano recupera, come fa Dante con Virgilio, sia Plotino sia l’ecologia di cui parlava mons. Delpini. E non a caso di giudizio parlò – con voce davvero ispirata – papa Francesco dalla spettrale Piazza San Pietro della prima quarantena da Covid

Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri.

Papa Francesco, Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020

E non sarà vano ritenere accanto a queste considerazioni il monito di Salviano al termine del suo argomento: 

Il rispetto verso la sacra maestà è una cosa così grande e formidabile che non soltanto dobbiamo avere in orrore quel che gli empi dicono contro la religione, ma dobbiamo anche vagliare con grande timore e disciplina quel che noi stessi diciamo a favore della religione. 

Salviano, op. cit., 25 

Se qualcuno poi volesse gettare uno sguardo oltre la soglia medievale, per osservare le pratiche religiose cristiane relative al tempo atmosferico in età moderna, lo rimando con piacere a questa piacevolissima pagina sul Wettersegen della sempre ottima Lucia Graziano.

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