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Messico: la Chiesa chiede al Governo di agire contro il crimine organizzato

rogelio cabrera

RENE DE JESÚS / NOTIMEX / Notimex via AFP

Jaime Septién - pubblicato il 29/06/22

Intervista al presidente della Conferenza dell'Episcopato Messicano, monsignor Rogelio Cabrera López

“Il crimine si è esteso ovunque (in Messico), turbando la vita quotidiana di tutta la società, influendo sulle attività produttive nelle città e nelle campagne, esercitando pressione con estorsioni nei confronti di chi lavora onestamente nei mercati, nelle scuole, nelle piccole, medie e grandi imprese”, hanno affermato i vescovi per voce del segretario generale della Conferenza Episcopale Messicana (CEM), il vescovo di Cuernavaca, monsignor Ramón Castro y Castro.

Circa questo stato di prostrazione a cui il crimine organizzato ha sottoposto il Paese, che “si è impadronito delle strade, dei quartieri e di interi paesi, oltre che di strade, superstrade e autostrade… con livelli di crudeltà disumana, esecuzioni e massacri che hanno reso il nostro Paese uno dei luoghi più insicuri e violenti al mondo”, e sul ruolo della Chiesa cattolica nella ricostruzione del tessuto sociale, abbiamo conversato con l’arcivescovo di Monterrey e presidente della CEM, monsignor Rogelio Cabrera López.

Dopo l’assassinio recente di un civile e di due sacerdoti gesuiti nel tempio cattolico di Cerocahui, Tarahumara, voi vescovi, unendo la vostra voce a quella del popolo, avete detto ‘Ora basta!’, chiedendo una risposta al Governo federale in materia di sicurezza. Qual è la risposta che volete?

Vogliamo un dialogo nazionale, un dialogo con i cittadini, e ovviamente noi, come Chiesa, vogliamo condividere questo dialogo. Da parte nostra, siamo molto vicini a presentare una proposta con le principali parti interessate da questa situazione, che sono i sacerdoti gesuiti, ma dalla CEM con la dimensione di Giustizia e Pace.

È un tema molto complesso, perché quello che sta accadendo è la somma di molte situazioni, un cocktail amaro per il Paese: furti, omicidi, menzogne… Tutto queste rende molto complessa la situazione.

In molti dei suoi comunicati, la CEM ha sottolineato che il tessuto sociale è spezzato. È così?

È lacerato. E quel che è peggio è che i cittadini stessi non sembrano più avere interesse per la pace nei loro spazi. Prima in Messico c’erano organizzazioni di quartiere, di agglomerati, ora tutto questo è svanito, e dobbiamo recuperarlo con modi concreti di partecipazione cittadina. È il momento di tornare a legare i fili delle relazioni nel nostro Paese, come quelli tra le scuole e i genitori.

Nell’ultimo appello, dopo l’assassinio dei Gesuiti, l’episcopato messicano ha detto che questo crimine all’interno di un tempio“non è altro che un’altra dimostrazione della mancanza di valori e di sensibilità a cui si è arrivati, perdendo ogni rispetto per la dignità umana”. Monsignore, dove si è spezzato il Messico?

La migrazione dalle campagne ai grandi agglomerati urbani ha provocato la rottura del tessuto sociale. Le grandi città del Paese non erano preparate a ricevere i migranti interni. Non possono vivere la solidarietà comunitaria che avevano nei loro paesi, e si sentono a ragione emarginati, espulsi.

C’è poi il degrado morale ed etico, in cui tutti rubano, chiunque uccide e molta gente mente.

La Chiesa riconosce qualche responsabilità in questo ambiente di degrado morale che vive il Messico? Nel vostro comunicato dopo l’assassinio dei padri Campos e Mora, dite che “come Chiesa non abbiamo fatto abbastanza nell’evangelizzazione dei popoli, e bisogna raddoppiare gli sforzi…”

Sì, e anche che “resta molto da fare nella ricostruzione del tessuto sociale, partendo dal lavoro pastorale”. Siamo consapevoli del fatto che, come ci ha detto Aparecida nel 2007, dobbiamo “ricominciare” l’evangelizzazione, prendendo molto sul serio, tutti noi sacerdoti, quello che sta accadendo in Messico.

La rottura del tessuto sociale ha anche portato come conseguenza la rottura del tessuto ecclesiale. La Chiesa subisce le conseguenze della divisione sociale. E l’assenza dei più giovani nella vita comunitaria.

In termini molto concreti, cosa deve fare la Chiesa per raggiungere una pace con giustizia di cui il popolo messicano è assetato?

Realizzare i nostri lavori pastorali molto vicino alla popolazione. Soprattutto avvicinarci ai luoghi più poveri. Le città hanno grandi concentrazioni di persone molte povere che dobbiamo accompagnare nel loro processo di arrivo nei centri urbani.

Non aspettiamo di avere edifici per le parrocchie. Serve il coraggio di avere parrocchie senza il tetto, che ci sia vicinanza alle persone che arrivano e non sanno dove rimanere.

E i governi municipali e gli imprenditori?

Lavorare con onestà per ricevere chi si integra in questi grandi nuclei urbani. Mettere da parte la “politica del like” e lavorare molto vicino alla gente.

Penso che i presidenti dei municipi debbano andare a vedere come vivono i cittadini. Non basta essere efficienti in ufficio. Nelle città spesso l’aspetto è brutto, desolato, non c’è nulla che inviti alla bontà. Non ci sono parchi, mancano luoghi di incontro.

E in questo, anche gli imprenditori devono partecipare: le politiche di costruzione e urbanizzazione devono promuovere la convivenza, che è l’antidoto alla violenza nelle città.

Esistono le condizioni per iniziare in questo momento un dialogo nazionale di pace?

Dobbiamo insistere. In Messico non ci sarà mai la “situazione propizia”. La Chiesa non ha la ricetta magica, ma ha il desiderio onesto che le cose migliorino. Che il dialogo passi dal livello locale a quello statale, e infine federale.

Abbiamo bisogno di stringere questo patto sociale in cui ciascuno deve contribuire per far sì che la situazione cambi. Ci sono esperienze internazionali che metodologicamente sono provate per il cambiamento. Nel nostro Paese lo stiamo già facendo in alcune grandi città, sostenuti dai padri gesuiti. Sono modi semplici. Li chiamiamo “Telar”, perché vogliamo incidere sul tessuto sociale.

La Chiesa, torno al suo comunicato, vuole unirsi “alle migliaia di voci dei cittadini di buona volontà che vogliono che si ponga un freno a questa situazione”. Monsignore, quali sono queste voci?

Oltre ai laici che già stanno lavorando, le università hanno un ruolo speciale in questo campo. Bisogna approfittare della ricchezza della cultura universitaria. Ci sono molte risorse per sostenere la popolazione vicina a queste realtà. La creatività che esige il momento che attraversa il Messico dev’essere maggiore.

Il Messico è il Paese più pericoloso in cui esercitare il ministero sacerdotale. Cosa possiamo fare noi laici per difendere la nostra Chiesa, i nostri sacerdoti?

Dobbiamo recuperare il rispetto gli uni degli altri. Oggi le reti sociali fanno sì che l’ambiente sia molto aggressivo. Tutti parlano male degli altri. Manca il rispetto per l’autorità. Per i genitori, per gli insegnanti…

E anche noi, che eravamo l’ultima risorsa, siamo oggetto di vilipendio sulle reti sociali. Anche se ci soon sacerdoti che sbagliano e commettono un crimine, il sacerdote è lì per servire il popolo, e lo abbiamo fatto nel corso dei secoli. E anche in questo momento. Sono moti i sacerdoti che dedicano la propria vita ai fedeli.

Tutti dobbiamo parlare bene con rispetto di tutti. Oggi ci sono molte mancanze di rispetto nei confronti delle autorità: cattolici che parlano male del Papa, dei vescovi… In questo ambiente è molto difficile il rispetto. Si inizia con un’aggressione verbale e si finisce con un’aggressione fisica.

È un cambiamento fondamentale per la pace in Messico: cambiare questa cultura della comunicazione che ci ha danneggiato tanto. I problemi non si risolvono con gli insulti, e le autorità non sono migliori se le aggrediamo.

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