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Recalcati: cos’è la fratellanza in tempo di guerra e pandemia?

RAGAZZI, LOTTA, COLTELLO

Monkey Business Images | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 13/07/22

Una riflessione dello psicoanalista Massimo Recalcati. La presenza del fratello è un'intrusione, sgretola l'idea di essere figli unici, cioè di 'essere e avere tutto'. E proprio abitando la fatica di riconoscere la presenza altrui si disintegra l'illusione dell'onnipotenza tipica della violenza.

Fratelli coltelli

Secondo un certo pacifismo esibito in cortei e slogan, siamo tutti fratelli. Non lo s’intende letteralmente, ma solo con la vaga idea che gli uomini siano simili, e dunque la guerra è sbagliata e dunque la violenza va condannata.

Se prendessimo alla lettera quel siamo tutti fratelli, o meglio se applicassimo alla frase un sano senso di realtà, ci verrebbero in mente scene più quotidiane e meno zuccherose: ci sono liti familiari tra fratelli che s’incancreniscono per decenni, c’è la regressione infantile del bambino a cui nasce un fratellino o una sorellina. Il legame di sangue parla una lingua opposta al facile volemose bene. Eppure è proprio piantato lì, nel mistero dell’essere figli dello stesso Padre, il seme della pace. Che non è una capacità personale, uno sforzo verso i buoni sentimenti; è invece il riconoscimento umile e anche ferito di un limite che diventa occasione di incontro, passando per un lutto profondo.

CORTEO, PACE, STRISCIONI

Quest’ipotesi non scontata di fratellanza è stata al centro di un intervento fatto dallo psicanalista Massimo Recalcati lo scorso giugno, nell’ambito dell’evento La Repubblica delle idee. In questo tempo che ci vede attraversati dal doppio trauma di una lunga pandemia e di una guerra in seno all’Europa, Recalcati pesca a piene mani nella tradizione ebraica e offre l’interpretazione psicanalitica di nodi umani a cui noi cristiani possiamo aggiungere il tassello decisivo della buona notizia del Vangelo.

Essere all’altezza di ciò che ci accade

La definizione di etica data da un grande filosofo, Gilles Deleuze, è non canonica, non comune. Etica significa ‘essere all’altezza di ciò che ci accade’. È una definizione che dovremmo prendere sul serio. Che cosa significa in questo tempo, nel tempo di un doppio trauma (la pandemia e la guerra nel cuore dell’Europa), essere all’altezza di ciò che ci accade? La mia proposta […] è che un modo per essere all’altezza di ciò che ci accade è la fratellanza, ripensare in modo non retorico la fratellanza.

Massimo Recalcati
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Nell’ascoltare queste parole ho pensato subito a Emily Dickinson:

Non conosciamo mai la nostra altezza, finché non siamo chiamati ad alzarci.

La realtà, il tessuto incandescente e vivo della storia, ci chiama ad alzarci. Esige una nostra mossa. Verissimo è che noi confondiamo questa chiamata all’altezza con un mero alzare la voce. Ed è capitato proprio sia durante la pandemia sia nel caso della guerra in corso: commenti & reazioni, questo è il nostro pilota automatico di fronte agli eventi e ci dà persino l’impressione di esercitare un atto di coscienza. Ci dà l’illusione di una presenza attiva nella storia, ma è solo prendere in mano un megafono e metterci di fronte allo specchio.

L’etica intesa come ‘essere all’altezza di ciò che accade’ ci chiede un passo in una direzione opposta al narcisismo scambiato per ‘migliore lettura dei fatti’. Una casa cresce in altezza se le fondamenta tengono. E lo stesso vale per l’uomo. Quando un qualunque terremoto scuote ogni nostro punto di vulnerabilità, la vera altezza non è andare sul tetto e urlare, ma scendere nel silenzio e nel buio delle fondazioni… a verificare su cosa si regge il tutto.

Il grido e il soccorso

E scendendo, andando indietro, all’origine di ciascuno di noi, c’è il momento della nascita. Recalcati riporta ogni grido del nostro mondo attuale al pianto del bambino che viene al mondo.

La matrice della vita è questa. Nessuno di noi può vivere, può mantenere viva la propria vita, senza l’ossigeno dell’altro. […] Immaginiamo il grido di una vita che viene al mondo. Questa vita, senza la presenza dell’altro, sarebbe destinata alla morte. Non sopravvivrebbe. Ci vuole un altro, che soccorra la vita dell’inerme. Ci vuole un altro che sia in grado di rispondere al grido. Etimologicamente la categoria etica della responsabilità viene dalla parola ‘risposta’. […] Il grido dell’inerme assomiglia a una preghiera. Se ci pensate, la forma più radicale di parola, dell’appello, è la preghiera. Questa è la prima forma della fratellanza, prendersi cura dell’inerme. E non accade solo in una sala parto.

Massimo Recalcati
URODZIŁA PO PRZESZCZEPIE SERCA

Nell’esperienza umana il soccorso, dunque, nasce in modo benedettamente passivo. Prima lo riceviamo, e solo alla luce di ciò possiamo anche darlo agli altri. Senza la presenza di un altro il mio io muore. Ciascuno di noi è in vita grazie a questa dipendenza originale da una madre, da un altro che si rende ospitale, accogliente. Siamo in vita perché siamo stati soccorsi, perché la nostra presenza è stata protetta, il nostro grido è stato ascoltato. Ecco che questa pietra fondativa, piantata nella nostra coscienza, può renderci all’altezza anche della situazione storica attuale in cui tanti hanno bisogno di essere soccorsi.

Nella Bibbia c’è una parola che tiene insieme la responsabilità e la libertà ed è “Eccomi”. Non ti lascio cadere nella fossa. Non ti lascio cadere nel buio. “Eccomi” fonda la possibilità laica della fratellanza. Non sei solo nel buio della notte.

Massimo Recalcati

Possiamo andare incontro all’altro, soccorrerlo, per strapparlo al buio, proprio perché ne siamo stati strappati noi per primi. Il soccorso è una risposta, e di conseguenza responsabilità, all’essere stati soccorsi.

Fratello, l’esperienza del ‘non tutto’

A questa mossa buona di soccorso, va aggiunto un altro tassello esperienziale che è opposto.

In tutto il testo biblico la fratellanza è fondamentalmente un fallimento. All’origine Caino uccide Abele. La storia dell’uomo inizia con un gesto fratricida. Giacobbe ed Esaù si contendono la vita nel grembo materno. Giuseppe, il piccolo, viene svenduto dai suoi fratelli. La storia del figliol prodigo la conosciamo tutti, c’è qualcosa che non funziona tra i due fratelli.

Massimo Recalcati
SOLDATI, GUERRA, FUCILI

Leggendo la cronaca quotidianamente, si notano i lembi di una ferita che siamo incapaci di ricucire. Da Caino in poi le lotte fratricide sono ancora all’ordine del giorno – primo lembo della ferita. Continuiamo però a riconoscerci nella voce che si oppone all’odio diffuso – lembo opposto della ferita. Resta uno squarcio tra questi due opposti?

E se fosse che proprio la fatica di essere fratelli fosse la vera radice di pace? Il ritratto di ogni uomo è un quadro complesso, non c’è il bene da una parte e il male dall’altra. C’è il peccato piantato in un cuore che non smette di anelare al bene. Allora, una vera risposta umana alla drammaticità degli eventi deve accogliere tutto il mistero complesso che siamo, deve attraversare il limite come occasione su cui un bene incarnato (tutt’altro che ideologico) s’innesta.

Perché la fratellanza è così difficile? […] Che cosa è accaduto tra Caino e Abele? E’ accaduto che un fratello, Abele, ha obbligato Caino – primogenito – a fare esperienza del limite, a fare esperienza del ‘non tutto’. Caino ha fatto l’esperienza di non essere l’unico figlio. Il fratello, nella misura in cui appare all’interno della nostra vita, ci porta il trauma di un’intrusione. […]. E’ l’esistenza del fratello, o della sorella, che ci ricorda che io ‘non posso essere tutto’. […] La follia della guerra è quella di sentirsi Dio, rifiutando l’idea del ‘non posso essere tutto’.

Massimo Recalcati

Dunque è vero che siamo fratelli, ma non significa che andiamo d’amore e d’accordo. Significa, invece, che l’unico antidoto all’idolo dell’onnipotenza è l’intrusione di un simile che ci costringe a fermarci, a guardarlo, ad ascoltarlo.

La violenza non parla

Avere un fratello implica un lutto, una parte di noi muore. Muore l’idolo del figlio unico, di una scena dominata da un solo colore e una sola voce. Il mito di tanti dittatori è quello di una cartina geografica colorata uniformente con il pennello di una conquista senza più confini. E il dittatore parla la lingua del figlio unico, è l’unica e l’ultima voce in capitolo.

La vera capacità di pace di cui solo la parola è capace, passa inevitabilmente dal lutto ‘buono’ di chi si riconosce fratello di altri.

L’esperienza della parola implica l’esperienza del lutto. Dove c’è parola, c’è lutto. Lutto di che? Lutto dell’illusione di essere tutto. Dove c’è esperienza della parola, c’è esperienza della perdita della parola, cioè: non può esistere solo la mia parola. L’esperienza del limite nella fratellanza insegna che io non posso pretendere di avere l’ultima parola. […] L’esperienza della democrazia è che non può esistere una lingua unica. Un solo popolo, è il grande delirio dei babelici. Questo è il fanatismo dietro ogni totalitarismo […] La democrazia ricorda che c’è un nesso tra parola e lutto: non c’è la parola che chiuda i discorsi, che imponga una sola lingua, un solo modo di leggere il mondo.

Massimo Recalcati

Quante volte abbiamo sentito dire che la diplomazia dovrebbe avere la meglio sulla violenza? Il motivo per cui è vero è opposto all’ipotesi che la parola sia ‘potere’, capacità persuasiva, imposizione intellettuale. Spesso la usiamo così, è vero, e questa è la morte della vera parola (tant’è che la voce popolare ci insegna che la lingua fa più male della spada).

Solo se la parola nasce dal lutto, dalla consapevolezza che una parte di noi deve morire – stare zitta, ascoltare -, si può costruire un incontro. Recalcati si ferma sulla soglia della democrazia, come esempio virtuoso e ideale di una civiltà fondata sulal fratellanza, fondata sulla coscienza che si deve fare la fatica di vincere la pulsione assolutista e ospitare la voce dell’altro.

Il cristiano può fare un passo ancora più liberante. La fatica della parola, l’impegno verso l’incontro non è uno sforzo linguistico e umano fondato sul nostro ‘dizionario’. Non solo, infatti, siamo fratelli (… e abbiamo visto che è tutt’altro che roseo riconoscerlo…) ma nostro Padre non si è tolto dalla scena. Ci ha lasciato un Consolatore.

e cominciarono a parlare in altre lingue.

Non è una capacità tecnica, quanto il trionfo di un incontro possibile. Il dono e la presenza dello Spirito Santo è l’abbraccio presente di un Padre che sa che i suoi figli patiscono nella convivenza reciproca. Dio non ci lascia soli in balia delle nostre parole, infila il Suo amore nelle nostre parole – se lo invochiamo. E ci ha lasciato quella Parola viva che è il Vangelo, vero specchio a cui indirizzare lo sguardo per comunicare con gli altri.

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