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Nella Chiesa, la sola testimonianza che conta è quella degli umili 

kobieta samotnie modli się w kościele

Josh Applegate | Unsplash | CC0

Benoist de Sinety - pubblicato il 18/07/22

La realtà dell’organizzazione ecclesiastica non è brillante, ritengono alcuni cattolici. Quel che conta, osserva padre Benoist de Sinety, parroco di Saint-Eubert a Lille, non è “crederci”, ma sapersi peccatori.

«E quest’anno che leggiamo?». A due settimane dalla partenza del nostro Camino annuale verso Santiago, la questione rimbalza da una parte all’altra nel nostro gruppo WhatsApp. Da sei anni avanziamo col nostro passo ogni anno un po’ più affaticato verso Compostela: una decina di laici e il prete (che sono io). Ogni estate per una settimana leggiamo un vangelo o un ciclo veterotestamentario: Luca, Mosè, Ruth, Giona, gli Atti… E allora, che leggiamo nell’estate 2022? 

Riflettere sulla Chiesa 

Azzardo una risposta: «Quest’anno, vi propongo di riflettere sulla Chiesa, perché non farlo leggendo Lumen Gentium?». Non avrei saputo se non l’ultima sera quanto la proposta li avesse gettati nella perplessità: «Per dirla tutta, la Chiesa in questo momento anche un po’ basta». Prima di raccogliere questa confessione, condivisa dalla maggioranza del gruppo, abbiamo percorso giorno dopo giorno dalla Cantabria alle Asturie scorrendo i capitoli: 

  • la Chiesa come corpo, 
  • la Chiesa con le sue membra (i chierici, i laici, i religiosi), 
  • la vocazione alla santità, 
  • il popolo in cammino verso il Regno… 

Gli argomenti non mancavano. Le discussioni si facevano vive, appassionate. 

All’altezza delle aspettative: «Il testo è bello, è ispirato, c’è dell’ideale…». Tutti possono vedere i cambiamenti che queste parole introducono nella storia, l’importanza per la Chiesa di pensare sé stessa, illuminata dallo Spirito, e di osare affermare che la vita ci obbliga a rischiare di avanzare, piuttosto che conservare a ogni costo ciò a cui non vogliamo rinunciare. Che dobbiamo seguire Cristo, il quale non resta mai immobile, invece di volersi preoccupare anzitutto di sotterrare i nostri morti. È però vero che il testo rimane molto ideale: presenta quel che deve essere. Tutt’altra è la cruda realtà. Possiamo dirlo anche con più delicatezza: l’assoluto non può svincolarsi totalmente dalla realtà concreta. E la realtà non è molto brillante, quando si parla dell’organizzazione della Chiesa oggi nel nostro Paese, nel nostro Occidente, ma diciamo pure nel mondo. 

«Siamo dei poveracci» 

È che presentando la missione dei vescovi, dei preti, dei diaconi, dei religiosi e di tutti i battezzati, ed enunciando ciò che ciascuno dev’essere, è forte il rischio di ficcare in testa a quanti ci si riconoscono che la grazia di stato dia loro di essere ciò che devono aspirare a divenire (come per magia: «Sono ordinato, dunque posso. Sono battezzato, dunque posso»). E che alcuni possano, come dicono i giovani, “crederci”… Il padre Ceyrac s.J. aveva l’abitudine di ripetere queste parole semplicissime e profondamente vere, che valgono per gli uomini e per le donne: «Siamo dei poveracci». 

Il battezzato che non arriva a formulare questa verità, per sé e prima di ogni altra, corre il grave pericolo di diventare un “tipo losco”. Perché nessuna testimonianza potrà essere ascoltabile e nessuna parola dell’Evangelo potrà essere proclamata da un discepolo di Gesù, quali che siano il suo rango e la sua dignità nella gerarchia ecclesiastica, se non è attento a quanti ricevono queste parole e non ricorda che la bocca che le pronuncia si sa peccatrice e riconosce che è la potenza di Dio a venire in soccorso alla sua debolezza. 

L’umiltà non si misura ai concorsi di eloquenza, non più di quanto la pietà sia questione di genuflessioni. Riconoscersi peccatori non può limitarsi nel battersi il petto all’inizio di ogni messa – lo sappiamo tutti benissimo. Bisogna che lo viviamo nelle relazioni nelle quali lo Spirito santo ci coinvolge, incorporandoci nel medesimo corpo – quello di Chi solo ci salva. I nostri titoli, le nostre cariche, le nostre responsabilità non troveranno la loro legittimità se non a condizione che le riceviamo come assolutamente e totalmente immeritate, e come pretesto a dare le nostre vite aprendole agli altri.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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