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Ma quale invenzione? I cristiani hanno sempre creduto al Purgatorio

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PURGATORY

Renata Sedmakova | Shutterstock

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 01/08/22

Né Bonifacio VIII né Dante Alighieri né altri personaggi hanno “inventato” la dottrina sulla purificazione post-mortem; anzi gli Apostoli stessi la trovarono già diffusa, essendo essa parte di una koinè culturale-spirituale che in epoca ellenica condivisero trasversalmente pagani, giudei e cristiani.

Alla data del 1º agosto il Martirologio Romano riferisce: 

Ad Antiochia, la Passione dei Sette ss. fratelli Maccabei, martiri, che soffrirono con la loro madre, sotto il re Antioco Epifane. Le loro reliquie, portate a Roma, furono deposte nella Basilica di S. Pietro in Vincoli. 

Dal De civitate Dei di Agostino sappiamo che ad Antiochia era eretta un’antichissima basilica (già scomparsa nel V secolo) per celebrare il loro culto, ed è triste – lo scrivevo altrove – che i cristiani abbiano nutrito calorosa devozione ai sette fratelli martiri perlopiù in epoche in cui il loro culto alimentava le frizioni con gli ebrei (nel tardo-antico) o (per ragioni distinte) con i protestanti (nell’evo moderno). 

Se fossero stati più costanti e consapevoli, soprattutto i cattolici, mai nessuno avrebbe osato scrivere (e invece più bulbi oculari ne sono stati offesi) che «il Purgatorio l’ha inventato Dante». Affermazione che fa il paio con l’altra, dissennata, per la quale «la Sindone l’ha dipinta Leonardo» (la Sindone non è dogma di fede, a differenza del Purgatorio, ma qualunque cosa essa sia è attestata per via documentaria almeno tre secoli prima della nascita del genio di Vinci…). 

Da dove partire, dunque, per distruggere questa montagna di ignoranza (e tentare poi di ricostruire qualche conoscenza fondata)? Probabilmente dalla lettera che Lutero scrisse a Spalatino il 7 novembre del 1519 (si noti la data: erano passati appena due anni dalle famose “95 tesi” [che non furono affisse alla porta della cattedrale di Wittenberg]): 

Le parole di Cristo nel Vangelo secondo Giovanni, a proposito del purgare i tralci, sono state applicate al Purgatorio da un certo Vincent, e nessuno ha mai torto di più il senso della Scrittura… Resta il testo nei Maccabei, che è molto chiaro. Ma quel libro non fa articolo di fede, né i Padri lo considerano un’autorità. Specialmente il secondo libro è rigettato da Girolamo. 

Martin Luther, Lettera a Georg Spalatin, 7 novembre 1519 

“Un certo Vincent” è Vincenzo di Beauvais, morto nel 1264, ed è vero che una lettura rigorosa di Gv 15 non può leggervi “il Purgatorio” sic et simpliciter. La prima volta (a noi nota) in cui si usava il sostantivo “Purgatorio”, però, era occorsa già un secolo prima (circa duecento anni prima di Dante…), ed era stato il venerabile Ildeberto di Lavardin (1056-1133) a produrne il testo in una sua omelia. In essa il santo vescovo normanno spiegava che per costruire la Gerusalemme celeste bisogna estrarre, lavorare e prepararne le “vive pietre” (che sono gli uomini), e che di queste operazioni si fa carico Dio «per conformarle allo splendore della sua immagine»: 

E mentre sono ancora nei corpi è come se fossero nella cava. Le masse dei corpi infatti le premono e le costringono con grandissima tenacia. Non a caso sta scritto: | «Il corpo, che si corrompe, grava sull’anima, e l’abitacolo terreno deprime il senso che pensa a molte cose» (Sap 9,15). Desiderava appunto essere estratto da qui, colui che diceva: «Chi mi libererà dal corpo di questa morte?» (Rom 7,24). È infatti necessario che veniamo scossi da molti colpi, prima che ne veniamo estratti in modo conveniente e utile: «È infatti necessario che entriamo nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni», e di questo potete credere a chi disse: «In molte veglie, in innumerevoli preoccupazioni, nella fame e nella sete, nel freddo e nella nudità, eccetera» (2Cor 11,27). 

Sul trauma della separazione, poi, sentite il Profeta: «Mi hanno circondato i gemiti della morte, i dolori dell’inferno mi hanno circondato» (Sal 17,5). Quanto sia intollerabile quella separazione, quando i nodi tra anima e corpo si sciolgono e vengono rotte le loro proporzioni, lo si vada a leggere nel Libro dell’esperienza, dove si parla di quelli che non vollero essere risuscitati da Antonio per non dover morire di nuovo… 

Dopo questa separazione, se c’è qualcuno che viene trovato subito idoneo (ma è cosa rara!), subito viene elevato: così avvenne per san Benedetto, del quale qualcuno afferma addirittura di aver visto l’anima schizzare verso il cielo. Noi invece nel nostro piccolo diciamo che ci toccherà la sorte del legno, del fieno e della paglia, che passano e che vengono rifiniti in un’istanza di ripulitura [in purgatorio]. Di cui l’Apostolo dice: «Se le opere di uno bruciano, lui soffrirà ma si salverà, però come passando per il fuoco» (1Cor 3,15). Dopo la ripulitura allora vengono caricati e collocati ai posti rispettivi per mano dell’Artefice, e vengono disposti stabilmente nei sacri edificî. 

Evidentemente, la Chiesa ripresenta ogni singolo anno queste tre cose: alla vigilia di Ognissanti, la separazione; nella loro solennità, la collocazione; nella memoria dei defunti, la ripulitura. […]

Ildeberto, In dedicatione ecclesiæ sermo quartus, PL 171, 740-741 

La pagina del venerabile Ildeberto è delicata e raffinata, e rende ragione della fama del suo autore, che passò per uno dei grandi autori della rinascenza francese del XII secolo: meritano attenzione in particolare i rimandi tra l’esegesi scritturistica, allegorica ma non arbitraria, e il dato liturgico (torna il rimando al 31 ottobre, del quale si esplicita la rilevanza cristiana…). Merita poi attenzione il fatto che Ildeberto non si appoggi a 2Mac 12,43-46, bensì a 1Cor 3,11-15, per sostenere il suo pugatorium. Il che non vuol dire che egli non ritenga affidabile il testo deuterocanonico, bensì che (conformemente alla tradizione patristica) egli non lo ritenga l’unico fondamento dogmatico del Purgatorio. In teoria, Lutero avrebbe potuto/dovuto apprezzare molto questo testo, perché in questa omelia Ildeberto stava probabilmente strigliando dei confratelli cluniacensi molto più attenti alle prebende conferite al monastero dai contadi circostanti che ai loro compiti spirituali (donde l’insistenza sui temi penitenziali di 2Cor 11,27). Non so però di testi di Lutero in cui si citino le sue opere, e del resto le omelie di Ildeberto risultano relativamente rare, stando ai codici: quel che è certo, però, per quanto ci riguarda, è che né Dante né Vincenzo di Beauvais furono i primi a parlare di Purgatorio, bensì (almeno) Ildeberto di Lavardin; pure importante è che egli non si senta legato al testo di 2Mac… 

Ma che dire della riserva di san Girolamo a cui Lutero si richiamava? Così scrisse l’autore della Vulgata (che effettivamente nella sua prima versione non comprendeva i libri originariamente composti in greco): 

È vero che la Chiesa legge Giuditta, Tobia e i libri dei Maccabei, ma non li ammette tra le Scritture canoniche, e allora legga anche questi due volumi [la Sapienza di Salomone e il Siracide, N.d.R.] per l’edificazione del popolo, non per dare autorità alle dottrine della Chiesa. 

Ecco il punto a cui sembra riferirsi Lutero quando dice che il libro dei Maccabei «non fa articolo di fede». A parte il fatto che Girolamo si riferisce direttamente a “questi due altri volumi”, invitando a non considerarli come fondamento dottrinario, ma pure ammettendo che sottintendesse un’analogia con i Maccabei, quel che Girolamo afferma è che le dottrine della Chiesa sono un’entità distinta dai libri sacri, e che in alcuni di questi si trovano fondamenta a quelle, non che una dottrina ecclesiastica è legittima se e solo se è contenuta nelle Scritture. Girolamo, insomma, non afferma il sola Scriptura (del resto, neanche nelle Scritture stesse se ne trova traccia). 

Insomma è Ildeberto, non Lutero, a compiere correttamente il circolo ermeneutico: 

  1. individuazione delle dottrine ecclesiastiche a partire dalla vita della Chiesa (ossia dalla lex orandi); 
  2. fondazione delle stesse nelle Scritture canoniche (nella fattispecie in 1Cor e non in 2Mac). 

Ma a parte tutto questo, sta di fatto che Girolamo stesso volle rimettersi «al giudizio delle Chiese» e, nella seconda versione della Vulgata, incluse anche i deuterocanonici. Fece cioè prevalere il sentire ecclesiale sul proprio genio teologico. Passaggio a cui Lutero, almeno su questo punto, non sarebbe arrivato. A parziale giustificazione si può addurre gli scandali alimentati dai romani pontefici (almeno da Alessandro VI a Leone X) per alimentare la Fabbrica di San Pietro a suon di indulgenze (s)vendute. 

La fede dei cristiani nel Purgatorio (molto prima di Lutero e Dante) 

Ciò fu indiscutibilmente uno stupro della dottrina cristiana sul purgatorio, ma è impossibile affermare che per quello si possa invalidare questa. Il primo attestato ecclesiale della fede nel purgatorio è la coscienza embrionale di una misericordia di Dio che – fatta salva la dottrina delle “due vie” escatologiche (quella per cui alla fine del mondo non potrà esserci una “via media” tra il Paradiso e l’Inferno) – possa “convertire anche dopo la morte”. Convertire, si badi, non perdonare: benché la distinzione tra colpa e pena fosse ancora di là da venire, la coscienza ecclesiale non giunse mai a pretendere che la “politio” nell’aldilà possa rovesciare una “opzione fondamentale contro Dio”, la quale invece postula ed esige l’Inferno. 

Negli Atti di Paolo e Tecla (tardo II secolo) si legge ad esempio: 

Quando furono fatte sfilare le bestie, Tecla fu legata a una feroce leonessa; la regina Trifena l’accompagnava. La leonessa però leccò i piedi di Tecla che era seduta su di essa, mentre tutta la folla era fuori di sé. Il motivo della condanna era su di un’iscrizione: «Rea di sacrilegio».

Donne e bambini presero a gridare nuovamente: «Quali empietà, o Dio, si commettono in questa città».

Dopo questa sfilata, Trifena la prese nuovamente con sé, poiché sua figlia Falconilla, che era morta, le aveva detto in sogno: «Al mio posto, madre, prenderai Tecla, straniera abbandonata, affinché preghi per me ed io possa passare nel luogo dei giusti». 

Dopo la sfilata, Trifena l’accolse dunque, sia perché era addolorata che il giorno appresso dovesse combattere con le fiere, sia perché l’amava molto come la figlia Falconilla, e le disse: «Tecla, mia seconda figlia, vieni, prega per mia figlia affinché viva nell’eternità. Questo infatti è quanto ho visto in sogno».

Tecla non indugiò ed elevò la voce dicendo: «Dio dei cieli, Figlio dell’Altissimo, concedile quanto desidera, che cioè sua figlia Falconilla viva nell’eternità». All’udire queste parole, Trifena era desolata al pensiero che tanta bellezza stava per essere gettata alle fiere.

Acta Pauli et Teclæ, 28-29 

Pochi anni dopo fu redatta (forse da Tertulliano) la Passione di Perpetua e Felicita, che dedica ben due capitoli a un racconto simile: 

Pochi giorni dopo, mentre siamo tutti raccolti in preghiera, mi venne all’improvviso di fare a voce alta il nome di Dinocrate. Mi stupii che non mi fosse venuto in mente prima, bensì solo in quel momento, e provai un gran dolore al ricordo della sua disgrazia. Compresi all’istante che ero diventata degna di intercedere per lui, e che lo dovevo fare. Pregai a lungo per lui, levando i miei lamenti al Signore. La notte stessa ebbi questa visione. Vidi Dinocrate uscire da un luogo tenebroso, dove erano molti, tutto accalorato e assetato, d’aspetto ripugnante, d’un pallore mortale e, sul volto, la ferita che aveva al momento della morte. (Questo Dinocrate era stato un mio fratello carnale, morto orribilmente a sette anni per un tumore che lo aveva colpito al viso, e perciò la sua morte aveva suscitato l’orrore e il compianto di tutti. Era per lui che avevo pregato). Ma la distanza che ci separava era grande: non avremmo potuto in alcun modo avvicinarci, né lui a me né io a lui. Dove si trovava Dinocrate c’era una vasca piena d’acqua il cui bordo superava in altezza la statura del fanciullo. Dinocrate, nel tentativo di bere, si protendeva con tutte le sue forze. E io provavo un gran dolore vedendo che, pur essendo la vasca piena d’acqua, l’altezza del b ordo gli impediva di bere. Qui mi svegliai, e compresi che mio fratello era in difficoltà, ma confidai di riuscire in qualche modo ad aiutarlo. E pregai per lui ogni giorno, finché non fummo trasferiti nella prigione militare […]. Pregai per lui giorno e notte, gemendo e lacrimando, perché mi fosse concessa la grazia. 

Il giorno stesso in cui fummo messi in ceppi, durante la notte ebbi questa visione. Vidi quello stesso luogo che avevo visto la volta precedente, e Dinocrate ben lavato, ben vestito e in salute; dove aveva la ferita, vedo una cicatrice; e la vasca che già conoscevo aveva il bordo abbassato all’altezza dell’ombelico del fanciullo, e l’acqua sgorgava senza posa. Sul bordo c’era una coppa d’oro piena d’acqua. Dinocrate si accostò e bevve da quella, e l’acqua nella coppa non veniva meno. Saziata la sete, prese a giocare e a divertirsi con l’acqua, come fanno i bambini. Qui mi svegliai, e compresi che era stato liberato dalla pena. 

Passio Perpetuæ et Felicitatis, 8-9 

Evidentemente, nessuno pretende che questi testi – a differenza di 1Cor 3 (e di 2Mac 12) in nessun modo canonici – possano essere addotti a luoghi dogmaticamente probanti, che cioè un cristiano oggi debba credere al purgatorio «perché sta scritto qui». Esattamente al contrario: un cristiano oggi deve credere al purgatorio perché i cristiani ci hanno sempre creduto, come attestano anche questi testi; e quegli stessi cristiani hanno ritenuto di poter fondare la propria fede su testi (canonici) come 1Cor 3 e 2Mac 12. 

Tertulliano sarebbe tornato a descrivere quella specie di sheol della visione onirica di Perpetua anche nell’ultimo capitolo del De anima, e dopo argomenti filosofici e teologici conclude: 

Insomma, se per quel “carcere” di cui parla il Vangelo [Mt 5,25-26] intendiamo gli inferi e interpretiamo l’“ultimo spicciolo” come il più piccolo peccato da scontare colà con il rinvio della prima resurrezione, nessuno dubiterà che l’anima abbia una qualche ricompensa presso gli inferi, senza con questo menomare la pienezza della seconda resurrezione che è estesa anche al corpo. 

Tertulliano, De anima 58 

Conformemente al suo stile apologetico, Clemente di Alessandria avrebbe invece enfatizzato la contiguità fra l’embrionale dottrina cristiana sul “purgatorio” e quella latente nella sapienza ellenica: 

Con quanto sopra è in concomitanza l’idea dell’immortalità dell’anima: chi viene punito o corretto ha sensazioni, e perciò vive, anche se si dice che subisce. E non è vero che Platone conosce fiumi di fuoco e le profondità della terra, e chiama con nome poetico “Tartaro” quella che dai “barbari” è detta “Geenna”, e introduce i vari Cocito e Acheronte e Pirflegetonte e simili luoghi di pena con la funzione di correggere e disciplinare? 

Clemente Alessandrino, Stromati V,91,1-2 

Più nitido appare, sempre in Clemente, il riferimento a 1Cor 3, laddove un paio di libri dopo si legge: 

Noi invece affermiamo che il fuoco purifica non le carni, ma le anime peccaminose; e non si tratta del fuoco che tutto divora, di quello comune, bensì del fuoco “intelligibile”, quello che «penetra attraverso l’anima» quando [questa] attraversa il fuoco. 

Ivi, VII,34,4 

Anche Origene sarebbe tornato ad esprimere questa dottrina, nelle Omelie sui Numeri (15) e in quelle su Luca (24,13). In Occidente, Cipriano avrebbe usato esplicitamente il verbo purgare e già tra IV e V secolo “purgatorius” si sarebbe imposto (come aggettivo!) per qualificare il fuoco e le pene a cui alludevano i testi or ora scorsi. 

Non si capisce davvero, dunque, a che cosa si riferisse Lutero parlando della mancanza di sostegni patristici: 

L’esistenza di pene purificatrici è affermata da Ambrogio (In Ps. 36,26), Gregorio di Nissa (Or. de mort.), Cesario di Arles (Serm. 167 ee 179). Agostino dà un solido fondamento teoretico alla dottrina del purgatorio, evidenziando la distinzione tra pena e purificazione con il fuoco (Gen. c. manich. II,20.30; Civ. Dei 21,26), durata della pena in rapporto alla gravità dei peccati (Ench. 69) e soprattutto l’efficacia dei suffragi per i defunti(Conf. 9,13; Nat. et orig. Anim. 1,13; De cura mort. 3; Ench. 110). Anche Gregorio Magno apportò un grande contributo: egli è persuaso che «per alcune colpe lievi vi sarà un purgatorius ignis prima del giudizio» (Dial. 4,42.57 e insiste sugli aiuti che i vivi possono dare ai defunti particolarmente con l’elemosina, la preghiera e l’eucaristia (Dial. 4,55). 

Mario Maritano, Purgatorio in NDPAC, III, 4414-4416, 4415 

Che fastidio dà il Purgatorio? (Attorno a 1Cor 15,29)

Si eccederebbero di gran lunga i limiti di un articolo divulgativo, se volessimo riportare tutti questi testi, e se anche lo facessimo saremmo ben lungi dal dare un’idea esaustiva del vigore che la dottrina del purgatorio ha sempre avuto in àmbito cristiano, a partire dall’antichità e ininterrottamente fino ai nostri giorni, forse la prima epoca di generale e scettico disinteresse per il purgatorio. 

Non mi pare di aver mai riscontrato (chiaramente per via documentaria) un momento dell’avventura  cristiana in cui fosse più basso l’interesse verso il Purgatorio: 

  • per i protestanti, talvolta legati alle loro agiografie più di quanto un cattolico lo sia mai stato alle sue, è impensabile ammettere che Lutero abbia avuto torto nel lasciare che gli (enormi) scandali patiti deformassero la sua ermeneutica teologica; 
  • per i cattolici, travolti da una temperie che concede loro diritto di esistere a malapena nella riserva-indiana dell’intima coscienza, la dottrina del purgatorio risulta imbarazzante come un turgore osceno e del tutto fuori luogo – dei novissima si deve parlare poco, e soprattutto senza turbare la sensibilità di nessuno (quindi la cosa migliore è non parlarne affatto); 
  • perfino per la cultura media italiana “il Purgatorio” è quella cantica di mezzo dalla quale la cultura pop non riesce a salvare neanche un endecasillabo (almeno il Paradiso è servito a partorire l’estremo e ben riciclabile “l’amor che move il sole e le altre stelle”). 

Le teologie contemporanee lo rigettano come puerile a fronte delle teorie post-kantiane sulle forme pure a priori, ma se certi “teologi” avessero mai letto Tertulliano saprebbero che le loro obiezioni erano già state previste e aggirate all’inizio del III secolo: la ragione umana si unisce alla fede nel postulare che la morte non sia semplicemente una “botola che immette nell’eternità”, perché ne verrebbe negata la dottrina della communio sanctorum

Il Purgatorio esiste insomma perché da sempre i cristiani hanno ritenuto che i beati potessero intercedere per i vivi, e che questi da parte loro potessero intercedere per i morti… o almeno per alcuni fra loro (cioè per quanti non sono dannati e non sono ancora in grado di godere della visione divina). È cosa impressionante che Paolo mostri attestata questa credenza proprio a Corinto, e che non mostri di riprenderla quantunque la forma dell’attestazione sia decisamente estrema: 

Altrimenti, che cosa faranno quelli che si fanno battezzare per i morti? Se davvero i morti non risorgono, perché si fanno battezzare per loro?

1Cor 15,29 

A metà degli anni ’50 del I secolo (praticamente il giorno dopo la Pentecoste) si attesta che in una delle principali e più grandi comunità giudaico-cristiane della diaspora è invalsa la pratica che si potrebbe dire dell’“anabattismo vicario”: gente che aveva accolto il messaggio cristiano magari uno, dieci o vent’anni dopo la morte di coniugi, genitori, parenti o amici… e comprensibilmente desiderava fare qualcosa di utile anche per loro (“lucrare loro qualche grazia dai meriti di Cristo”, si direbbe con anacronistici modernismi). 

Il passaggio è rapidissimo, e da Tertulliano e dal Crisostomo sappiamo che ancora fino al III e al IV secolo la pratica continuava ad attestarsi in alcune frange ereticali… ma la cosa che colpisce è che Paolo non si attarda a contestare la liceità della prassi, anzi vi si riferisce come ad argomento a sostegno della predicazione della risurrezione: «Questa pratica può avere un senso – è ciò che l’Apostolo scrive ai Corinzi – solo se una risurrezione effettivamente si dà». 

Ora potremmo finalmente chiederci, in sede di storia del dogma cristiano, 

  • perché Paolo non mostri di contestare la prassi in sé, e 
  • donde l’abbiano ricavata i giudeo-cristiani di Corinto (insomma se questa prassi l’avesse insegnata lui o no). 

Nel rispondere all’una e all’altra questione viene da accostare il versetto in esame a quello che apre la sezione sulla risurrezione, e al quale il successivo fa evidente riferimento stilistico: 

Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?

1Cor 15,1 

Quando si riferisce alla dottrina della non-risurrezione, di ascendenza sadducea, Paolo dice “alcuni tra voi”, contrapponendo a questa incredulità serpeggiante la dottrina da lui predicata (“il nostro annuncio”, si legge in 1Cor 15,14 con plurale maiestatis/modestiæ). Quando invece parla dell’anabattismo vicario si usa un semplice participio medio-passivo al presente, senza complementi partitivi di sorta: se ne ricava l’impressione che 

  • quanti si facevano battezzare per i morti ci fossero a prescindere dalla predicazione paolina, e che 
  • la loro presenza non fosse necessariamente rinchiusa nella comunità giudaico-cristiana di Corinto, ma che fosse attestata in qualche modo trasversalmente. 

Che vuol dire questo? Che verosimilmente Paolo non ha insegnato quella prassi, ma che pur non avendola raccomandata non l’ha neppure ostacolata. E ha tenuto questa politica perché la credenza che faceva da sostrato alla prassi – ossia che i vivi potessero intercedere per i defunti – era 

  • ampiamente condivisa nella comunità (e forse anche fuori di essa?); 
  • sostenuta dallo stesso Paolo. 

Quando diciamo “trasversale alla comunità giudaico-cristiana” intendiamo dare per verosimili due asserti: 

  • il primo è che la credenza fosse diffusa anche in comunità ecclesiali diverse da quella di Corinto (e i riscontri di Tertulliano e del Crisostomo inclinano a crederlo); 
  • il secondo è che la stessa fosse condivisa anche fuori dalla rete giudaico-cristiana (e senza scomodare altre ricerche, già il passo dagli Stromati di Clemente lo comprova). 

Lungi dall’essere un’“invenzione di Dante” (figuriamoci!) o di Bonifacio VIII o di Alessandro VI o di Leone X, la credenza che i vivi potessero intercedere per i defunti era dunque parte della koinè culturale-spirituale ellenistica, condivisa da secoli con ampia trasversalità anche all’interno di religioni come i nient’affatto monolitici giudaismo e nascente cristianesimo. 

La prova? Appunto il fatto che essa sia stata attestata nel deuterocanonico testo dei Maccabei: 

Il nobile Giuda esortò tutti quelli del popolo a conservarsi senza peccati, avendo visto con i propri occhi quanto era avvenuto per il peccato dei caduti. Poi fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato.

2Macc 12,42-45 

Lutero ammise che il testo era chiarissimo, ma colse lo sbilanciamento metodologico di Girolamo per giustificare il proprio intervento ermeneutico sul Canone (tanto più grave perché avvenuto quando l’uso si era consolidato da più di mille anni), e lo fece in base alla propria personale sensibilità teologica, la quale era stata ustionata dai (gravi) abusi promossi da Roma per la propria sete di denaro. 

Più recentemente, invece, si è preteso di espungere la credenza nella possibilità di intercedere per i defunti proprio in nome del fatto che essa fosse condivisa anche fuori dall’alveo della Rivelazione: si sarebbe cioè dovuto procedere a epurare il testo sacro da quella che sembrava una contaminazione ellenistica. Le contraddizioni di un simile approccio metodologico, che da un lato pretende di scremare i testi sacri da quanto si pretende estraneo rispetto alla “pura rivelazione” e dall’altro si vantano dell’ancillarità in cui subordinano la teologia alle scienze sociali, sono sotto gli occhi di tutti. Soprattutto, esse sembrano derivare da una scarsa familiarità con il mistero dell’Incarnazione, dal quale deriva recta via (e per divina disposizione) la necessità, per il teologo, di inserirsi in una dialettica ecclesiale che lo tenga al riparo, per quanto possibile, dal delirio del proprio ego spirituale. 

Le chiese cristiane si gioverebbero molto di un umile e sapiente disarmo dei pregiudizî: se sul punto specifico, ad esempio, i protestanti ammettessero i torti di Lutero nel mutilare il Canone e i cattolici quelli del Papato nell’abusare delle indulgenze, tutti potremmo tornare ad abbeverarci alle fonti di una dottrina incontestabile perché condivisa da tutti i cristiani della storia. 

Mi ha fatto sorridere, e mi ha dato speranza in tal senso, che un teologo ed editore biblico ritenesse che Paolo avesse dettato quelle righe proprio pensando alla pagina maccabaica. Chi è questo teologo? In realtà sono due: Kurt Aland e Barbara Nestle, marito e moglie, protestanti (!), e autori di quella che ancora oggi è l’edizione critica del Nuovo Testamento più accurata e completa di cui si disponga. 

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Pagina 468 dal Novum Testamentum Græce et Latine edito da Kurt Aland e Barbara Nestle nel 1984. Nel margine esterno della gabbia di testo principale, i riferimenti (espliciti o impliciti) individuati dai coniugi editori

Pregate per Kurt e Barbara: forse non avranno più bisogno di intercessione nel loro purgatorio, ma in tal caso potranno intercedere a loro volta per noi, per le nostre Chiese, per i nostri studi, per la nostra fede cristiana. 

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