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Il mistero dell’Ascensione di Cristo come paradigma antropologico di salvezza

Chrystus błogosławi

jorisvo | Shutterstock

Aleteia - pubblicato il 14/09/22

Invito alla lettura del volume di don Cosimo Quaranta dal titolo “Pienezza. Per un’antropologia dall’Ascensione” (l’editrice TAU)

di Célestin Kabundi*

Affermare che il Signore abiti in cielo, guardi l’umanità dal cielo e a Natale scenda “dalle stelle” cosa significa veramente? È una ricchezza del linguaggio poter utilizzare espressioni che rimandino a significati ulteriori di senso, come nel caso del “luogo” in cui dimori il divino. La Scrittura afferma che “il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra” (Dt 4,39) e insegna a pregare chiedendo che la sua volontà si compia “come in cielo così in terra” (Mt 6,10). Dio dimora nel cielo, cioè nel suo mistero, ma è altrettanto vivo nel cuore di chi lo accoglie. Il problema nasce quando per “cielo” intendiamo un luogo astronomico fisso, esulando dal valore simbolico del linguaggio premoderno. Se il Signore è nel cielo, allora perché oltre l’atmosfera non è stato incontrato? 

Il mistero dell’Ascensione è ideale per tentare di trovare una risposta a tali quesiti. In queste pagine l’indagine è condotta su tre livelli: storico-letterario, biblico-esegetico, antropologico-spirituale. La direzione verticale della salita al cielo del Risorto ha la stessa traiettoria dei desideri di felicità e pienezza del cuore umano e per l’autore è fondamentale “sanare quel divorzio tra spiritualità e teologia che, purtroppo, ha segnato per molto tempo la storia della riflessione credente nella Chiesa” (dalla prefazione di Jean Paul Lieggi).

Il vantaggio della ricerca di “Pienezza” è quello di chiarire il valore dei termini che spesso usiamo nel linguaggio simbolico religioso; linguaggio che deve rimanere sia simbolico, che religioso, senza per questo diventare irreale. Spiega, infatti, l’autore che pronunciare nella stessa frase le parole “Dio” e “cielo” significa riconoscere che il “cielo” partecipa all’inverificabilità di “Dio”, in quanto per l’esperienza comune dell’uomo “cielo” è una realtà quotidiana, concreta e visibile, ma allo stesso tempo alta, lontana e indisponibile alla modifica manuale (pp. 125-136). L’inverificabilità non è però separazione dalla vicenda umana. È, infatti, questa l’esperienza dei discepoli negli incontri con il Risorto. Sebbene asceso – quindi separato definitivamente dalle relazioni come erano esperite prima della sua morte – essi sono nella gioia. La consapevolezza dell’Ascensione ha consegnato, dunque, una certezza capace di consolare: egli è “in cielo”, ma anche “con loro” (secondo capitolo). Interessante e degno di nota è il terzo capitolo. In esso l’autore mostra come cielo e terra si mescolino nella vita concreta dell’uomo e della donna credenti. Per fare questo, la ricerca teologica si arricchisce dell’esperienza di Chiara d’Assisi e Ignazio di Loyola, mostrando come il cielo è il simbolo della tensione della vita umana verso la “pienezza”. 

La chiarezza del linguaggio, la scorrevolezza nella lettura e il coinvolgimento diretto del lettore aiutano – anche il meno addetto ai lavori – a entrare nella ricerca teologica e spirituale, garantendo di poter gustare in profondità ogni passaggio. 

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*Célestin Kabundi è dottorando in Teologia presso Università di Friburgo (Svizzera).

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