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Thérèse di Lisieux: dalla notte oscura alla notte stellata 

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Anne Bernet - pubblicato il 01/10/22

Lungi dall’essere tutta rose e fiori, la fine della vita della piccola Thérèse di Gesù Bambino fu una prova terribile e indubbiamente senza pari. Ecco la storia della notte oscura, senza stella alcuna, che ha attraversato la santa carmelitana, sola fino alla fine, prima di unirsi a Colui che il suo cuore non ha mai cessato di amare.

Da mesi soffriva atrocemente, rosa dalla tubercolosi che se la sarebbe portata via nella serata del 30 settembre 1897. Da mesi, per di più, sapeva di andare verso la morte, senza alcun sollievo. 

Nella notte del Venerdì santo del 1896, scossa da una violenta emottisi (che nascose alle superiore per paura di dare troppo pensiero in convento), Thérèse di Gesù Bambino e del Volto Santo si sentì riempita di una gioia immensa, quella della certezza di lasciare presto questo mondo per la gioia dell’Altro. Come la sua patrona, la grande Teresa, quella di Ávila, che sul letto di morte esclamò “Amore mio, finalmente ci vediamo!”, aspirava con tutto il suo essere all’incontro eterno. Le restava allora più di un anno e mezzo da vivere. 

Questo periodo lo avrebbe vissuto non nella pienezza intravista ma in una notte oscura dell’anima, e resta quasi senza pari nella storia della mistica: a tratti conoscerà le tinte della disperazione più nera. 

Quelle tenebre lei le ha volute 

Era colpa sua, e lei lo sapeva: quelle tenebre le aveva volute lei, le aveva reclamate. E Dio l’ha esaudita. Ma si rendeva conto, quella ragazza di 23 anni, di cosa aveva osato chiedere? Una certa immagine pia ci ha inculcato di Thérèse una visione falsata, inebetita, riduttiva: quella della carmelitana sorridente che fa piovere rose… «Passerò il mio Cielo a fare del bene sulla terra», diceva: ma quel che ha pagato per questo è inimmaginabile. «Spaccate quella statua!», esclamava settant’anni fa lo scrittore Gilbert Cesbron. E aveva ragione: Thérèse è agli antipodi degli aneddoti zuccherosi e del teochiacchiericcio da salotto borghese. Forse solo lei, nella storia della santità, avrà osato chiedere al Signore, con temperamento da guerriera – e non per nulla amava Giovanna d’Arco – quel che nessuno sarebbe abbastanza pazzo da domandare, nella sua sete sfrenata di salvare le anime e di non lasciar mai perdersi la minima goccia del prezioso sangue del Crocifisso. «Voglio tutto!», diceva da bambina. E tutto avrebbe avuto, in effetti: a cominciare da quello che gli altri non vogliono. 

Ha cominciato presto, se abbiamo buona memoria, quando a forza di preghiere e di sacrifici, nel 1887, impetrò la conversione in extremis di Pranzini, pericoloso assassino che aveva ammazzato una ricca vedova per prenderle qualche gioiello, la propria figlia illegittima di dodici anni, che aveva avuto dalla domestica, e quest’ultima. Di lui lei disse: «Il mio primo figlio!». 

Quel giorno, Thérèse comprese al contempo l’immensità della misericordia divina, la comunione dei santi e quanto costi strappare i peccatori dall’abisso. 

Se per tutta la vita si sognò missionaria e pregò per i suoi «fratelli preti e seminaristi», l’altro suo compito sarebbe stato salvare quanti si stanno dannando, quanti non credono, quanti non amano, quanti non sperano. E sono innumerevoli… 

Sola fino alla fine 

In uno di quei grandi slanci che solo lei sapeva avere, un giorno esclamò: «Mio Dio, lasciatemi sedere alla tavola dei peccatori!». Non certo per condividere i loro peccati, ma per assumerli, redimerli e permettere che le loro tenebre si convertano in giorno. Poteva immaginare – mentre formulava questa richiesta pazzesca – in cosa consistesse la realtà di quella tavola oscura in cui le anime si dimenano in una solitudine odiosa e disperata, anticipazione di quella dell’Inferno? 

Sia come sia, dal Sabato Santo del 1896 e fino ai suoi ultimi istanti di vita terrena, Thérèse si sarebbe seduta effettivamente a quella tavola per non alzarsene più, e tutto il furore del demonio – al quale quella aveva l’audacia di disputare quanti umanamente parevano già perduti – si sarebbe concentrato su di lei. 

Il 16 agosto 1897 confidò tutta agitata alla sorella Céline: 

Il demonio mi sta alle costole: non lo vedo ma lo sento. Mi tormenta, mi tiene come una mano di ferro, aumenta i miei mali perché io disperi. E non riesco a pregare! Riesco solo a guardare la Santa Vergine e a dire: «Gesù, soffro per Voi e il demonio non vuole!». 

Di lì a poche ore non sarebbe più riuscita neanche a fare la comunione senza vomitare sangue di continuo, cosa che le impediva di assimilare anche la più piccola particola… Sarebbe rimasta sola fino alla fine, incatenata alla tavola dei peccatori, come se avesse attratto su di sé quella giustizia divina di cui aveva sempre rifiutato di aver paura, affermando che da Dio si riceve quel che se ne attende. «Signore, Signore, perché mi hai abbandonata?» – l’agonia di Thérèse riecheggia quella di Cristo. 

La notte del nulla 

Alle religiose che la curano aveva chiesto di mettere le medicine fuori dalla sua portata, tanto era grande (e crescente!) la tentazione di agguantarle e di assumerne una dose letale. 

Ah, se non avessi la fede non potrei mai sopportare tante sofferenze. Sono sbalordita che non siano di più gli atei che si dànno la morte. 

La fede? Ce l’aveva sempre, evidentemente, ma non la sentiva più… La tavola dei peccatori è quella dalla quale Dio è assente. E lei volle sedervisi E allora si comportava come se la luce assente le restasse percettibile. È il consiglio classico dei confessori a coloro che affermano di aver “perduto la fede”: «Faccia come se ce l’avesse». Sembra assurdo, ma non lo è. Di solito, più o meno rapidamente la prova termina. 

Non quella di Thérèse, murata nel suo silenzio e nella sua solitudine, che si batté sola contro le potenze delle tenebre, incapace di sapere se il suo salvatore fosse ancora vicino a lei nella lotta. Il Maligno, da parte sua, era più che presente e le insufflava pensieri avvelenati: 

«Vai, vai avanti e consolati al pensiero della morte: quella ti darà non ciò che tu speri, ma una notte più profonda ancora, la notte del nulla!». Non voglio scrivere oltre – chiosava –, temerei di bestemmiare. Ho paura anzi di aver già detto troppo. 

Thérèse vacillava in bilico sull’abisso, unita alla miserabile massa dei peccatori, degli increduli affascinati dal vuoto, dal nulla, dagli abissi della morte – popolo immenso del tempo da venire, il nostro, per i quali si offrì in espiazione. 

Finalmente le stelle! 

«Ho paura di bestemmiare…». Madre Agnès, la superiora (oltre che sorella maggiore), avvertì qualcosa della spaventosa battaglia combattuta dalla sua sorellina, relegata nell’immobilità del suo letto; ma poiché non aveva un’idea compiuta dell’eroismo di Thérèse temette che quella soccombesse e che morisse bestemmiando. Pregò allora, e fece pregare, per scongiurare questa terribile e scandalosa disgrazia. Me lo immaginate? Una delle più grandi sante della storia della Chiesa bisognosa che altri, spiritualmente lillipuziani in confronto a lei, la portassero sulle loro braccia negli ultimi istanti. Il colmo dell’abbandono… e il mistero della comunione dei santi. 

Thérèse rese l’anima abbarbicata al crocifisso e ripetendo, fino all’ultimo respiro, “Gesù, Gesù…”. Le ultime parole di Giovanna. Le tenebre non l’hanno vinta, anche se questo le consorelle non lo avevano ancora compreso. Spezzata come si può esserlo quando si assiste alla morte di una creatura amata, quando fino alla fine si è sperato nel miracolo, madre Agnès lasciò la stanza dell’infermeria dove Thérèse aveva appena esalato l’anima. Piangeva a lacrimoni: si sentì di poterlo fare, ora che la sorellina non la vedeva più. Appoggiata contro il muro del chiostro, alzò gli occhi verso un cielo di autunno normanno, sgocciolante pioggia, opaco, nero, disperante come quel trapasso… e gemette: «Se solo ci fossero delle stelle!». E venne allora il vento, di colpo, a disperdere le nuvole, lasciando sopra al Carmelo di Lisieux un firmamento splendido, nel quale spiccava la costellazione che Thérèse amava, perché da bambina vi aveva letto l’iniziale del proprio nome. 

Questo fu il primo miracolo che Thérèse fece, entrando in Cielo, per consolare la sorella maggiore. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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