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Sant’Artemide Zatti ci insegna a vivere cristianamente la malattia 

FOTO BIANCO E NERO DI ARTEMIDE ZATTI

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Lucia Graziano - pubblicato il 11/10/22

Il 9 ottobre 2002, papa Francesco ha canonizzato Artemide Zatti: infermiere, farmacista e coadiutore salesiano che spese la sua vita al servizio dei pazienti. Ma anche Artemide fu malato, oltre che guaritore: e la sua esperienza ci offre lezioni importanti sul modo in cui un santo vive la malattia.

Artemide Zatti (1880-1951), infermiere e farmacista, è stato canonizzato da papa Francesco domenica 9 ottobre. Molte parole sono state scritte, e a buon diritto, sulla carità con cui il santo si prendeva cura dei malati nell’ospedale salesiano di Viedma, nella Patagonia argentina, offrendo gratuitamente le sue cure a chi non poteva permettersi di pagarle. Indubbiamente, Artemide fu santo della carità; ma non solo, perché anche a lui capitò (e in più di un’occasione!) di essere gravemente malato a sua volta. Ed è illuminante analizzare il modo in cui l’infermiere santo affrontò in prima persona la malattia. Dal suo esempio, possiamo trarre lezioni importanti. Vediamone alcune.

1Mai vergognarsi di chiedere aiuto

Molti dei pazienti di Artemide ricordarono la fermezza con cui l’infermiere, guardandoli negli occhi dopo la visita di routine della sera, li istruiva: “in caso di bisogno, voi avete l’obbligo di chiamarmi e io ho l’obbligo di rispondere alla chiamata”.

Dire a un malato che “ha l’obbligo” di far qualcosa equivale a un’affermazione molto forte; soprattutto se si è l’unico infermiere in servizio 24h/24 in un ospedale con settanta posti letto, e sarebbe ragionevole ammonire tutti con qualcosa sulle linee di “in caso di bisogno, sapete come chiamarmi; sennò, cercate di dormire e ci vediamo domattina dopo un bel sonno ristoratore che fa bene a tutti”. 

Ma non così faceva Artemide, che anzi reprimeva qualsiasi imbarazzo dei suoi pazienti spiegando loro che un malato che non si affretta a chiedere aiuto è un malato che sta inutilmente complicando il lavoro del suo medico. Anche quando, a causa della malattia, si teme di essere un peso, bisogna trovare il coraggio di domandare con fiducia. La stessa fiducia con cui, del resto, un giovanissimo Artemide aveva avuto “la faccia tosta” di chiedere essere trasferito in un altro sanatorio, non trovandosi troppo bene in quello in cui i suoi superiori religiosi l’avevano fatto trasferire.

2Accetta che la malattia ti possa stravolgere la vita

In sanatorio ci era finito a ventun anni, perché affetto da tubercolosi: se l’era presa in seminario, mentre assisteva (forse, senza tutte le cautele che sarebbero state utili?) un sacerdote anziano, che era a sua volta affetto da quel male. 

Una volta contagiato, il giovane seminarista era andato incontro a un rapidissimo declino, tanto che i suoi superiori avevano deciso di mandarlo a farsi curare in un sanatorio sulle Ande. A distanza di anni, Artemide avrebbe ricordato con dolore quel viaggio in treno di oltre 800 chilometri: riverso sul sedile in legno del suo vagone di seconda classe, piegato in due dalle sfitte, scosso da colpi di tosse così violenti che non si limitavano a fargli sputare sangue ma addirittura lo facevano rimettere per lo sforzo, il giovane seminarista aveva avuto la netta percezione di come il mondo gli stesse crollando addosso. Non si era mai sentito peggio in vita sua, disperava di poter guarire pienamente; temeva che sarebbe stato costretto ad abbandonare il suo sogno di diventare sacerdote; sentiva che non avrebbe mai potuto mettere al servizio della Chiesa la sua vocazione. Un fallimento su tutta la linea; e tutto a causa di quella maledetta malattia!

In effetti, quella benedetta malattia gli stravolse la vita per davvero, ma – col senno di poi – lo fece per il meglio. Dopo qualche mese nel sanatorio andino, nel quale appunto il seminarista non si trovava troppo bene perché lontano dall’ambiente religioso che gli era familiare, Artemide ottenne di poter essere trasferito nell’ospedale che i salesiani gestivano in Patagonia. Lì, ebbe modo di stringere amicizia con padre Evaristo Garrone, un sacerdote di origini italiane (proprio come lui!) che suggerì al ragazzo di pregare la Vergine Maria affinché lei gli donasse la grazia della guarigione. Magari, in cambio di un’offerta significativa: per esempio, quella di dedicare la sua vita alla cura dei malati

La guarigione arrivò. E Artemide, deciso a mantenere la promessa che aveva fatto alla Madonna, scoprì con sorpresa che quella di infermiere era senza dubbio la sua vera vocazione. Quel desiderio di assistenza e di cura verso i bisognosi, che aveva sempre creduto di dover declinare attraverso il ministero sacerdotale, adesso prendeva corpo nella cura dei malati in un modo che Artemide non aveva mai immaginato prima, ma che improvvisamente riempiva di senso le sue giornate. 

Qualcuno potrebbe anche dire che la Vergine ci aveva giusto, nel guarire il ragazzo in cambio di quel voto. Artemide era sì seminarista, ma faceva molta fatica a tenere il passo degli studi: durante la scuola dell’obbligo, non aveva mai studiato il Latino, e (in quanto immigrato) anche con lo Spagnolo aveva una dimestichezza decisamente inferiore rispetto a quella dei suoi compagni di studi. Arrancava, passava intere notti sui libri, e ciò nonostante faticava a colmare le sue lacune; ma improvvisamente rifiorì quando, dopo aver deciso dedicarsi alla cura dei malati, si iscrisse all’Università de La Plata per ottenere il diploma di farmacista: le materie scientifiche erano molto più nelle sue corde! La malattia gli aveva sì stravolto la vita, ma in questo caso davvero valeva il detto biblico per cui, sotto sotto, «tutto concorre al bene».

ZATTI

3La preghiera non è inutile, anzi

E come avrebbe potuto dire diversamente, un uomo che era attribuiva la sua guarigione a una grazia della Vergine Maria? 

Grato per il prodigio sperimentato sulla sua pelle, Artemide considerò la fede una parte integrante delle sue cure. L’ospedale che dirigeva era attrezzato con strumentature d’avanguardia, le dispense della farmacia erano piene di farmaci e vaccini, e naturalmente Artemide offriva ai suoi pazienti le cure previste dai protocolli medici (e ci mancherebbe altro). Ma al tempo stesso considerava la fede un elemento importante, anzi vitale, e non solo nella misura in cui essere utile per offrire ai malati un sostegno psicologico importante. I suoi pazienti erano incoraggiati a pregare chiedendo apertamente la grazia della guarigione: cosa che faceva lui stesso, più volte, posando una reliquia di san Giovanni Bosco sui malati che sembravano umanamente irrecuperabili, specie se ancora giovani.

4Conserva il sorriso

Nel 1950, anche Artemide si ammalò: di nuovo. In questo caso, mostrò i sintomi di una malattia che purtroppo non dava scampo: un cancro al fegato, pressocché incurabile a quell’epoca e comunque ormai in uno stadio molto avanzato. 

La gravità della situazione, che fin da subito fu ben chiara all’infermiere esperto, non bastò a fargli perdere il sorriso. Man mano che il male progrediva, l’infermità si rese evidente attraverso il più classico dei sintomi delle malattie al fegato: l’ittero, che diede alla sua pelle un colorito giallastro. Come se non bastasse, per effetto combinato della malattia, dei farmaci e della sedentarietà forzata, in breve tempo l’uomo si gonfiò a dismisura. 

Guardando allo specchio il riflesso di quel viso giallo e gonfio, che non sembrava più nemmeno il suo, Artemide avrebbe ben potuto farsi prendere dallo scoramento. Invece, ogni volta scoppiava in una sonora risata e scherzava coi suoi colleghi: “guardate, sto pian piano maturando come un melone!”.

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5E ricorda: alla fine, ci passiamo tutti

Nel corso della sua attività professionale, Artemide aveva compilato un’infinità di certificati di morte. Quando i medici che erano stati suoi colleghi constatarono infine il suo decesso e amaramente andarono a registrarlo, furono stupiti nello scoprire che Artemide aveva già preparato un certificato di morte a suo nome, meticolosamente compilato con tutti i dettagli necessari al di fuori del giorno e dell’ora del decesso. 

Ci va già una certa serenità d’animo, nel compilare il proprio certificato di morte mentre si scherza a cuor leggero su quella malattia che ti ha trasformato in un melone, e senza mostrare un minimo di paura o scoramento. Eppure, Artemide fece anche quello. 

Probabilmente è questo il modo in cui i santi affrontano la malattia. 

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