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“Padre”, “don”, “reverendo”: come si deve chiamare un prete? 

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Philippe Lissac / GODONG

Valdemar De Vaux - Giovanni Marcotullio - pubblicato il 11/10/22

Sui gusti non si discute, dice il proverbio, che sembra valere anche per quanto riguarda il modo in cui i fedeli si rivolgono ai preti. I differenti appellativi, comunque, non sono privi di senso – sia per chi li usa sia per chi ne viene chiamato.

«Non chiamate nessuno “padre” sulla terra» (Mt 23,9), dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo il suo ingresso a Gerusalemme. Una frase il cui carattere ingiuntivo risuona tanto più dopo gli scandali sugli abusi – in particolare quelli di autorità – nella Chiesa. 

Come però su Aleteia ha ricordato mons. Perrier, il vescovo emerito di Tarbes e Lourdes, la paternità spirituale non dovrebbe contrapporsi a quella biologica. Anzi, ogni paternità umana – come dono della vita – riflette quella di Dio Padre: 

La paternità non è assolutamente svalutata da Cristo, poiché essa serve da simbolo alla paternità divina. 

Posta tale premessa, si capisce come il chiamare i preti “padre” – sicuramente la formula più adoperata dai cattolici praticanti – non contravvenga la parola del Salvatore. Eppure questa maniera di rivolgersi ai preti è relativamente recente, poiché si è diffusa dopo il concilio Vaticano II, con lo scopo di meglio esprimere il vincolo e la prossimità tra il prete e i fedeli, piuttosto che la funzione dei prelati o la dignità sacerdotale, meglio espresse da formule come “signor parroco” o “reverendo”. 

Una questione di sensibilità 

L’espressione “padre”, ad ogni buon conto, è un retaggio monastico. Tra i cenobiti, i preti vengono chiamati così, come si fa durante il sacramento della Riconciliazione: «Beneditemi, padre, perché ho peccato». Rivolgersi a un prete in questa maniera è dunque un riferimento alla parabola detta “del figliol prodigo” (cf. Lc 15,11-32): il prete è appunto il ministro della misericordia di Dio. 

Per distinguere tra sacerdoti regolari e confratelli secolari, ci si potrebbe rivolgere ai secondi con espressioni centrate sull’ufficio ricoperto – è ad esempio il caso con “signor parroco” – oppure sulla dignità sacerdotale – quando si dice “reverendo”. È vero che questi appellativi possono suonare più pesanti o più formali, ma in fondo tutti significano la medesima cosa, poiché anche “parroco” si riferisce alla parrocchia, ossia (etimologicamente) alla comunità che compie in compagnia un tratto del pellegrinaggio terreno. Insomma, è soprattutto una questione di sensibilità. 

Resta pur evidente come l’espressione che utilizziamo dica molto della maniera che abbiamo di considerare la relazione. “Padre” è forse meno reverenziale, e unita al nome del prete può esprimere una forte prossimità. Quanto all’uso del solo nome, è segno di una fraternità tra laici e preti – che sono entrambi battezzati –, ma non onora l’impegno del prete a servire la Chiesa per essere, in mezzo ai suoi fedeli, colui che dà la vita del Padre attraverso i sacramenti che celebra, l’esempio che offre, gli insegnamenti che dispensa. Se i suoi parrocchiani non glie lo ricordano, con un misto di gratitudine e di amicizia – che non implica un atteggiamento naïf verso le debolezze del pastore –, come fa lui, il prete, ad assumersi ogni giorno la sua bella missione? 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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