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60 anni dal Concilio Vaticano II: da Pio XII a Francesco

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FOTOTECA ACI/CPP/CIRIC

i.Media per Aleteia - pubblicato il 13/10/22

Un professore di Storia dell'Istituto Cattolico di Lione analizza gli ultimi sei decenni e il futuro che ci aspetta

L’11 ottobre 2022 ricorre il 60º anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Papa Francesco ha celebrato per l’occasione una Messa nella basilica di S. Pietro. Dei quasi 3.000 vescovi che hanno partecipato al Concilio, solo cinque “padri conciliari” sono ancora vivi, tra cui un cardinale, il nigeriano Francis Arinze, che ha partecipato all’ultima sessione nel 1965. Benedetto XVI ha contribuito al Concilio Vaticano II come esperto teologo, ma non era ancora vescovo.

Se Papa Francesco si è dimostrato un figlio spirituale di Giovanni XXIII canonizzandolo e promuovendo un aggiornamento della Chiesa, p. Daniel Moulinet, sacerdote della diocesi di Moulins e docente di Storia presso l’Istituto Cattolico di Lione, spiega come Pio XII abbia delineato le prime linee guida per una riforma della Chiesa che i suoi successori hanno poi concretizzato. L’esperto analizza anche l’eredità del Concilio Vaticano II che continua a infondere l’attuale processo sinodale.

Papa Francesco ha detto a volte che ci vogliono cento anni per assimilare un Concilio. Possiamo dire che il Concilio Vaticano II, 60 anni dopo, è stato assimilato o ci sono ancora temi da approfondire?

Credo che sia stato pienamente assimilato da molti punti di vista: a livello della liturgia, ad esempio, la questione della partecipazione pienamente attiva e consapevole dei fedeli è stata assimilata dalla maggior parte del popolo cristiano. Il posto che spetta alla Sacra Scrittura è ora pienamente accettato. La struttura di un sacramento, la sua celebrazione, non è più concepita senza l’intervento della Parola di Dio. In passato non era necessariamente così. Ora si pensa all’Eucaristia come a un “tutt’uno”, non c’è più la dissociazione tra quella che veniva chiamata “pre-Messa” e la consacrazione. La Parola di Dio ha assunto pienamente il suo ruolo.

In termini di ecclesiologia, molti aspetti sono stati ben integrati. In particolare, abbiamo visto emergere la nozione di “presbiterio” intorno al vescovo di ogni diocesi, e i sacerdoti ne sono ben più conspevoli di prima. Ma ci sono anche elementi ancora da esplorare. La pratica dei sacerdoti che ascoltano i fedeli dev’essere approfondita. Alcuni chierici restano reticenti, ma lo Spirito Santo parla anche attraverso i laici, come ci ricorda il Concilio.

Quali sono stati i precursori del Concilio? Possiamo dire che Pio XII si sia accorto della necessità di un cambiamento?

A livello liturgico, Papa Pio XII aveva già aperto la strada a importanti cambiamenti nella sua enciclica del 1947 Mediator Dei, che metteva in pratica un’altra enciclica, Mystici Corporis Christi (1943). La sfida era pensare alla Chiesa come un corpo e applicare questa visione alla liturgia. Ogni fedele diveniva così membro di un corpo. Non si poteva più dire che il sacerdote celebrasse la Messa e che i fedeli vi partecipassero semplicemente, come a teatro.

Dagli anni Cinquanta in poi, Pio XII aveva anche permesso la pubblicazione di lezionari con la traduzione nella lingua locale. In alcuni Paesi, come Germania e Cina, si poteva celebrare la Messa in lingua locale prima del Concilio Vaticano II. Non era il caso della Francia, ma per la celebrazione dei sacramenti si poteva usare la lingua locale, se la formula sacramentale in quanto tale veniva mantenuta in latino.

La gente ha l’impressione che tutto sia iniziato con il Concilio Vaticano II, ma non è così; ci sono state molte trasformazioni anche prima. Possiamo anche indicare il ristabilimento della Veglia Pasquale nel 1954. Senza il pontificato di Pio XII, il Concilio non avrebbe avuto lo stesso punto di partenza. Sarebbe iniziato molto più indietro. Pio XII ha fatto avanzare le cose, e Giovanni XXIII ha amplificato il movimento iniziato dal suo predecessore.

I tradizionalisti rimproverano spesso al Concilio Vaticano II di aver contribuito alla crisi di identità che il cattolicesimo ha sperimentato dagli anni Settanta in poi, ma possiamo pensare, al contrario, che questa crisi avrebbe potuto essere anche più violenta se il Concilio non avesse avuto luogo?

Forse sì, perché lo scontro con la modernità avrebbe potuto essere ancora più frontale. In realtà, però, le cose si muovevano da tempo. Il 1965, anno della conclusione del Concilio, può essere considerato un acceleratore, ma non un punto di partenza. 

La recezione del Concilio ha avuto due fasi. Negli anni 1965-68, le persone non si ponevano troppe domande, e pensavano che l’assimilazione sarebbe avvenuta naturalmente. I gruppi dell’Azione Cattolica, ad esempio, hanno lavorato molto sulla Gaudium et Spes, ma l’implementazione è stata forse un po’ troppo funzionalista e riduttiva. 

Ad esempio, abbiamo istituito il consiglio presbiterale con una sorta di logica “democratica”, assicurandoci che ogni categoria di sacerdoti venisse rappresentata in questo corpo: i sacerdoti operai, i sacerdoti insegnanti, i cappellani dell’Azione Cattolica… Nelle diocesi abbiamo apportato aggiustamenti accurati, ma questa logica era forse troppo centrata sull’adattarsi al modo di agire della società, senza andare al cuore delle cose. Abbiamo iniziato con la superficie, senza un’ancora spirituale.

Di fronte alle difficoltà e alle divisioni che hanno caratterizzato la seconda fase del suo pontificato, Paolo VI provava un senso di fallimento nell’implementazione del Concilio Vaticano II o, al contrario, era consapevole della lentezza di questo processo storico?

Paolo VI, che era un uomo molto sensibile, ha preso di petto questa crisi della Chiesa e ne ha sofferto. Dopo l’Anno Santo del 1975 c’è stato un cambio di direzione. L’organizzazione di quel Giubileo aveva suscitato lo scetticismo di alcuni all’interno della Chiesa. Il successo dell’Anno Santo, tuttavia, ha cambiato la situazione. I grandi raduni ci hanno ricordato l’importanza della religiosità popolare, mentre dopo il Concilio alcuni chierici l’avevano sminuita volendo accogliere solo cristiani “consapevoli”, con una fede più intellettuale e ragionata. La riabilitazione della pietà popolare è stato un frutto importante di quell’Anno Santo, e Papa Francesco oggi insiste spesso sull’importanza di promuovere queste forme di devozione.

L’altra importante eredità del Giubileo del 1975 è stata il riconoscimento del Rinnovamento Carismatico. Paolo VI, esortato dal cardinale Suenens, Primate del Belgio, ha dato ai Carismatici il loro posto riconoscendoli come un fattore di ringiovanimento della Chiesa, per offrirle un nuovo impulso. Il vescovi francesi dell’epoca, guidati dall’Azione Cattolica, erano più reticenti, ma alla fine negli anni Ottanta hanno avviato un dialogo con questo movimento. Ciò gli ha permesso di strutturarsi, ponendo anche fine all’esistenza di alcune comunità regolate in modo inadeguato.

Il lungo pontificato di Giovanni Paolo II è oggi oggetto di molte letture critiche, e alcuni lo accusano di aver rallentato il Concilio, di averne bloccati certi sviluppi. È un’accusa falsa e il Pontefice ha invece valorizzato il Concilio nel suo magistero?

Credo che il suo pontificato sia stato pienamente in linea con il Concilio, di cui egli stesso era stato un attore importante. Il capitolo sull’ateismo nella Gaudium et spes, ad esempio, gli deve molto. Come Papa, ha mantenuto la linea del Concilio sulla libertà religiosa, sull’ecumenismo e sul dialogo con le altre religioni, di fronte a coloro che contestavano la posizione che aveva assunto.

Sul piano dell’ecclesiologia non ha fatto marcia indietro, condividendo anzi pienamente la posizione del Concilio. Oggi le critiche sono legate principalmente agli eccessi della Curia alla fine del suo pontificato, perché la sua salute non gli permetteva più di esercitare una piena autorità. Lo stesso fenomeno si è verificato alla fine del pontificato di Pio XII. Sarebbe però molto semplicistico sottolineare solo queste difficoltà, perché è stato essenzialmente un grande pontificato.

Qual era la posizione di Giovanni Paolo II sulla sinodalità?

Per quanto riguarda i Sinodi, ha lanciato un’iniziativa basata su un’intuizione che forse non è stata sufficientemente sfruttata: sinodi continentali, per Africa, Europa, Oceania… Forse questa intuizione non ha avuto lo sviluppo che avrebbe potuto avere, ma credo che potrebbe prefigurare la forma dei futuri Concili. 

Convocare oggi un Concilio Vaticano III sembra impossibile. Ai tempi del Concilio Vaticano II, tutti i vescovi erano formati nello stesso stampo teologico europeo. Oggi non è più così. Con la globalizzazione, l’Europa non è più il centro del mondo. Questi sinodi continentali hanno forse indicato la strada per un Concilio decentralizzato, con brevi testi distribuiti da Roma, ma poi bisognerebbe trovare un adattamento in base ai continenti e ai Paesi. 

L’attuale processo sinodale può essere visto come un modo per inserire il Concilio nella vita della Chiesa? 

Credo di sì, ma dobbiamo ancora scoprire il modo sinodale di lavorare. Non si tratta solo di organizzare un evento e poi tornare a casa. Credo che il futuro della nostra Chiesa risieda nell’apostolato dei laici, e quindi nella loro formazione spirituale. Se vogliamo che tutti partecipino alla vita della Chiesa, dobbiamo dare importanza a una formazione che permetta a ogni cristiano di sperimentare un incontro personale con Cristo Gesù. È avendo fatto questa esperienza, con l’aiuto dello Spirito Santo, che ognuno potrà trovare la sensibilità di far parte della Chiesa e di assumere il proprio posto nella sua costruzione. Il Papa ha ragione a parlare di “discepoli missionari”, ma questo presuppone il fatto di essere innanzitutto discepoli, cioè di ascoltare Cristo Gesù, di lasciarsi formare. Le parole devono avere un significato pratico.

La comunità cristiana deve avere una vera coscienza comunitaria e fraterna, tale che possiamo portarci a vicenda. Ogni parrocchia deve anche assumere la dimensione della diaconia, del servizio ai poveri, importante quanto la liturgia e la celebrazione. Credo che un rapporto personale con Gesù Cristo e un rapporto fraterno all’interno della comunità cristiana siano prerequisiti perché la vita sinodale cambi a poco a poco la vita della Chiesa, e si adatti a ciò che il Signore chiede.

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