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Lucifer: usare il diavolo per parlare d’amore e di Dio

LUCIFER

Netflix

Vidal Arranz - pubblicato il 18/10/22

La serie di Netflix è un sorprendente “cavallo di Troia” nella miscredenza abituale, e la sua apparenza frivola è al servizio della verità

Riconosciamolo. A prima vista può sorprendere che in una pubblicazione cattolica si parli bene (e perfino molto bene) di una serie che si intitola Lucifer e che ha come protagonista il diavolo, l’autentico principe degli inferi.

Dietro l’apparenza post-moderna, libertina, a tratti provocatoria e scettica, si nasconde un vero “cavallo di Troia” al servizio di una manciata di verità essenziali della fede, perché in mezzo alla miscredenza abituale, Lucifer non solo ci ricorda, in modo piuttosto serio, che esistono il cielo e l’inferno, e che questo comporta delle conseguenze, ma parla anche di Dio, del peccato, del distacco e del potere dell’amore, che trasforma, risana e salva.

LUCIFER

In Lucifer lo spettatore paziente, quello che rinuncia a giudizi impulsivi e ha la capacità di andare al di là delle prime apparenze, troverà alcuni dei momenti più intensi e coinvolgenti della televisione, e anche alcuni dei più toccanti e romantici. Capaci di toccare dentro.

La sua convinzione circa il potere trasformante dell’amore non è in alcun modo frivola o superficiale, né una semplice risorsa narrativa più o meno interessata. L’amore di cui parla Lucifer è quello capace di sacrificarsi, di rinunciare a se stesso per donarsi all’altro, ma non per dovere, quanto per una convinzione profonda: perché non si vuole agire diversamente.

Nella serie ci sono vari momenti di “epifania”, e tutti concordano nel sottolineare una grande verità: il miglioramento personale, la maturità e la capacità di vincere le paure e il lato oscuro interiore richiedono di smettere di pensare solo a se stessi. In realtà, passano per il fatto di essere in grado di mettere l’altro al primo posto, perché lo si vuole proteggere e si vogliono curare le sue necessità.

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Il dibattito sul libero arbitrio, sul fatto che si abbia una vera capacità di scegliere o si sia condizionati dal destino, anche senza saperlo, è uno dei temi centrali della serie. L’ossessione del protagonista di rifiutare le presunte manipolazioni a cui lo sottomette suo “padre” (Dio) e la sua puerile autoaffermazione non vengono mai celebrate dal racconto, per il quale è chiaro che Lucifer è in errore. Lo lascia però sbagliare e darsi colpi emotivi, in un processo di maturazione inequivocabile e con un finale ammirevole.

In questo senso, gioca un ruolo cruciale il personaggio della psicologa Linda Martin, che indica la giusta direzione al momento di affrontare i conflitti e proporre soluzioni, anche se i suoi pazienti non le danno sempre retta.

In qualche modo, la maniera che ha la serie di relazionarsi con il suo personaggio principale ha molto a che vedere con il dialogo cruciale di cui sono protagoniste una madre e una figlia in uno degli ultimi episodi. La figlia, che ha appena scoperto la verità sulla sua vita, chiede alla madre: “Come hai potuto sopportare le mie lamentele e la mia ira quando sapevi la verità?”

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La madre, che si trova sul letto di morte sul punto di spirare, risponde: “Nessuna madre vuole veder soffrire sua figlia, ma fa parte del lavoro”. In Lucifer il compito dei narratori consiste nel far sì che gli spettatori scoprano le verità profonde che si nascondono dietro le facezie, a volte irritanti, della loro stella senza evitare loro le oscillazioni gli alti e bassi del percorso.

Questo, tra l’altro, può essere detto in gran parte anche di Dio, perché la serie è piena di personaggi che Lo rimproverano per cose di ogni tipo. Non sono in grado di comprendere che l’Onnipotente rispetta la capacità di scelta delle Sue creature e il loro bisogno di scoprire da sole le grandi verità dell’esistenza, come accade al protagonista di questi racconti.

La serie gioca per molti episodi sul ricorso alla “tensione sessuale non risolta”, con Lucifer e l’ispettrice Decker che si avvicinano e si allontanano, in un tira e molla affettivo che nonostante tutto va avanti.

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L’aspetto più rilevante, però, è che la narrazione non teme di portare quella storia d’amore al culmine, con una scena magistrale che evoca i voti nuziali in un contesto radicalmente diverso e sorprendente.

Possiamo anche aggiungere che è capace di parlare per tutta la sesta e ultima stagione della complicità e felicità coniugale, sulla base, ovviamente, del fatto che ciò che accade nel mondo narrativo che circonda la felice coppia protagonista è tutt’altro che convenzionale.

Va però chiarito che tutto ciò avviene in contesti narrativi che possono mettere a disagio alcuni spettatori, perché ci si prendono molte libertà. La serie permette di parlare e discutere, con grande serietà e rigore, di questioni insolite in televisione – come la fede, la colpa, il silenzio di Dio, il rimorso o anche l’anima -, ma l’uguaglianza di genere e la diversità sessuale non si discutono. Sono le regole del gioco.

Un secondo avvertimento riguarda il tipo di licenze narrative che la serie si permette. Tutto inizia con la decisione di Lucifer di lasciare l’inferno e stabilirsi sulla Terra, a Los Angeles, per divertirsi.

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Per trasformare Dio, gli angeli, e altri personaggi biblici (Caino, Eva, Adamo…) in personaggi di una storia televisiva, Lucifer costruisce una sorta di traduzione della mitologia greco-latina nell’universo cristiano, con semidei (angeli) che si mescolano tra gli esseri umani, esseri immortali che irrompono nella storicità degli uomini, ecc..

Tutto questo è volto a presentare Dio come il padre di una famiglia piuttosto conflittuale, a volte anche disfunzionale, i cui figli (Lucifer, Amenadiel…) si lamentano dei Suoi silenzi, dei Suoi misteri e del fatto che non sanno mai bene cosa vuole che facciano. Una risorsa che serve a mettere al centro della storia l’altro grande tema della serie: il valore della famiglia.

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Tutte queste licenze possono sconcertare alcuni spettatori, per non parlare di quando, nella quinta stagione, Dio decide di “andare in pensione” e si apre la disputa tra gli arcangeli per decidere chi sarà il Suo successore.

Il modo migliore per avvicinarsi alla serie è capire che la verità del racconto non è negli aneddoti narrativi, e nemmeno nella caratterizzazione dei personaggi, che si prende anche molte licenze – Lucifer non solo non è il re della menzogna, ma si caratterizza, al contrario, per il fatto di dire sempre la verità -, ma nelle questioni di fondo che si dispiegano man mano che avanza la storia e che abitualmente si presentano con notevole rigore.

Le prime reazioni alla serie non sono state positive. Prima che venisse diffusa era già stata avviata una raccolta firme di protesta perché avrebbe contribuito ad “addolcire” la figura del diavolo.

Quando la serie era già andata avanti, tuttavia, il cattolico National Catholic Reporter ne ha pubblicata una recensione positiva firmata dalla sociologa della religione Tia Noelle Pratt.

Nel suo commento, la Pratt spiega che Lucifer “affronta la religione e le sfide della fede attraverso la forma del dramma familiare, la finzione procedurale (racconti di chiarimenti di crimini) e una storia d’amore”. Ed è così, anche se bisognerebbe aggiungere che nelle ultime stagioni la serie si sfalda a livello narrativo e rompe lo schema poliziesco incorporando altre risorse.

L’esistenza del cielo e dell’inferno, soprattutto la terribile realtà infernale, non è mai banalizzata in Lucifer. Il peccato non è qualcosa che sorge “dall’esterno”, ma qualcosa che nasce da dentro, e che non risponde ad alcuna manipolazione estranea al soggetto, ma al giudice più severo: l’autocoscienza interiore.

Anche se Lucifer non nasconde mai la sua condizione diabolica, nessuno lo prende sul serio, e chi lo circonda tende a interpretare le sue parole come metafore eccentriche.

Man mano che la storia procede, però, alcuni personaggi della finzione affrontano la visione del suo “volto infernale”, la sua vera realtà al di là dell’apparenza seduttrice di elegante dongiovanni. In questi casi la reazione è sempre la stessa: “Quindi è vero”. Il risultato è una drammatica presa di coscienza di ciò che ogni persona si gioca in realtà con il suo comportamento morale. Non è facile vedere una cosa del genere in televisione.

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È vero che Lucifer si presenta come un ragazzo attraente e simpatico, ma è anche un egoista e narcisista patologico, un edonista sfrenato e un frivolo con serie difficoltà a impegnarsi seriamente con qualcuno. Tratti che, al di là della caricatura con cui sono presentati in Lucifer, sono ampiamente diffusi nelle nostre società.

Tuttavia, il contatto di Lucifer con l’ispettore Chloe Decker, che per motivi motivi è immune al suo potere di suggestione, segna l’inizio di un processo di trasformazione lungo e complesso attraverso il quale ci troviamo di fronte a una riflessione più profonda del solito sulla capacità trasformatrice dell’amore e sulla sua capacità di abbattere i muri protettivi innalzati dal nostro egoismo.

Problemi come quello del male e la rabbia nei confronti di Dio provocata dalla morte incomprensibile di una persona cara sono affrontati dalla serie con una complessità insolita che fa trapelare la formazione cattolica del suo sviluppatore Ildry Modrovich.

Allo stesso modo, questioni complesse come il silenzio di Dio e la nostra incapacità di capire il perché di ciò che accade, o anche quello che desidera da noi, sono affrontate in modo rispettoso.

È una decisione intelligente, ad esempio, che la serie non includa Gesù come personaggio (essendo l’unico vero “figlio” di Dio, teologicamente parlando). Gli sceneggiatori sembrano essere consapevoli del fatto che sarebbe un personaggio molto difficile da gestire narrativamente senza cadere nell’offensivo o nella banalità.

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Inventare una ex moglie di Dio, con la quale avrebbe condiviso i compiti della creazione, è invece una licenza sopportabile a condizione che lo spettatore possa affrontare la serie con il giusto spirito.

Anche se Lucifer si basa su un personaggio dei fumetti creato da Neil Gaiman nell’ambito della sua serie Sandman, la produzione televisiva lo sviluppa in modo molto libero.

Ogni episodio è un caso poliziesco, di solito un omicidio, che dev’essere risolto dal tandem formato dall’ispettore Decker e dal consulente della polizia Lucifer. Sotto, però, si tesse un’altra trama con un lungo percorso e implicazioni più profonde, scatenata dall’attrazione che risveglia nel diavolo.

È vero che il Lucifer televisivo si rivendica come una persona molto diversa da quella che conosciamo, come un semplice punitore del male ma non come un incitatore, o solo indirettamente incitatore, ma non si è in presenza di una banalizzazione o di una legittimazione del personaggio.

Il diavolo di Netflix è un personaggio tormentato, che in realtà odia se stesso. È un’anima in pena in cerca di redenzione, anche se ha bisogno di molto tempo per accettarlo. La sua storia è usata per sostenere che tutti possiamo abbandonare l’oscurità e abbracciare il bene.

Il dramma di Lucifer durante le prime stagioni è che l’amore incita il diavolo ad essere un altro, a esplorare altre dimensioni di se stesso, generandogli conflitti di ogni tipo. “Sto forse cercando di essere chi in realtà non sono?” si chiede. Ma c’è sempre l’altra possibilità: “Forse posso essere migliore di quanto credevo”.

La conclusione di questo dilemma non delude affatto, e ci presenta Lucifero non solo nella sua dimensione di “caduto”, ma anche in quella di qualcuno che è in grado di alzarsi e redimersi dal suo mostro interiore. Un mostro, tra l’altro, su cui la serie mette in guardia, perché in realtà tutti ne abbiamo uno dentro di noi, disposto ad agire se glielo permettiamo.

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Anche se a Lucifer non mancano le attrattive, se lo si sa guardare nel modo giusto, e risulta anche molto divertente, è doveroso riconoscere che le prime tre stagioni soffrono di una certa irregolarità. Soprattutto la terza, la più lunga di tutta la serie, in cui lo spettatore troverà alcuni dei momenti migliori e più insoliti, ma anche i più noiosi.

Nelle ultime tre stagioni, quando le redini della produzione sono già nettamente di Netflix, la narrazione diventa più solida e dispiega una gamma più ampia di risorse, con incursioni divertenti in tutti i tipi di generi (dal noir al musical e ai cartoni animati). Si infiltrano invece nelle trame, più di prima, alcuni dei temi preferiti dai giustizieri sociali e dalla correttezza politica: il razzismo poliziesco, la mascolinità tossica, la scarsa presenza di donne nelle carriere tecniche… Fortunatamente, i temi vengono affrontati con uno spirito costruttivo.

Che dire della fine? Anche se i produttori hanno detto a suo tempo che non volevano una conclusione felice per la loro storia, è difficile non pensare che quella che hanno ideato per il loro racconto, al di là del suo tono un po’ ingenuo, sia una delle più belle possibili. Un trionfo dell’amore a tutti i costi.

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