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Omobono di Cremona e gli altri santi laici del Medioevo

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Lucia Graziano - pubblicato il 11/11/22

Santità laicale nel Medioevo? Ebbene sì: nell’Italia dei Comuni, di fronte all’ascesa di un ceto medio composto da mercanti e piccoli imprenditori, la Chiesa volle offrire modelli di santità che fossero facilmente replicabili anche da chi viveva nel mondo. Salì così alla gloria degli altari una piccola schiera di laici: santi, energici e, soprattutto, impegnati nella società!

Si tende spesso a pensare che la santità laicale sia qualcosa di molto recente. O per meglio dire: che solo negli ultimi decenni la Chiesa abbia cominciato a valorizzare lo stato laicale, canonizzando individui che si sono guadagnati l’aureola nella vita di ogni giorno, e cioè nel loro essere coniugi, genitori, professionisti attivi nel mondo del lavoro.

Un’affermazione vera, ma solo in parte. Certamente, nel corso della storia della Chiesa, vi furono momenti in cui a essere elevati alla gloria degli altari furono soprattutto religiosi, martiri o comunque individui che s’erano distinti per vite totalmente al di fuori dell’ordinario; e non v’è dubbio che, negli ultimi decenni, le canonizzazioni dei “santi della porta affianco” siano aumentate significativamente. Ma la santità laicale non è una prerogativa del XX secolo: un’inaspettata fioritura di santi laici si verificò (incredibile ma vero) nei secoli centrali del Medioevo. E, più precisamente, ebbe luogo tra il XII e il XIII secolo nell’Italia centro-settentrionale.

Un tempo e un luogo non casuali: siamo nell’Italia dei Comuni, cioè in un contesto in cui la borghesia aveva acquisito un’importanza tale da essere letteralmente salita al potere in molte città italiane, ricoprendo ruoli di governo. A questi leader provenienti dalla classe mercantile, bisognava pur fornire dei modelli di santità concreti cui ispirarsi: a un padre di famiglia giova relativamente poco sentirsi decantare le gioie della vita monastica; e l’eroico martirio dei santi dei primi secoli, pronti a morire pur di difendere la loro fede in un ambiente ostile, era (fortunatamente) qualcosa di molto lontano dalla vita quotidiana di un cittadino-medio nell’Italia del Duecento.

Certo, il martirologio offriva numerosi esempi di santi provenienti dal mondo dell’aristocrazia. Ma le gesta edificanti delle nobili regine franche avevano ben poco a che vedere con le sfide quotidiane di una indaffarata madre di famiglia dell’Italia comunale: insomma, la Chiesa sentì il bisogno di offrire esempi concreti e facilmente replicabili di individui che s’erano santificati nella normale vita di ogni giorno. E, tra questi, fu sant’Omobono di Cremona il primo a essere proposto alla venerazione dei fedeli.

Omobono: un uomo buono, come ce ne sono tanti

Omobono era nato nel 1117 da una famiglia della medio-alta borghesia: il padre era un sarto, aveva un negozio ben avviato e possedeva una casa e alcuni appezzamenti di terreno nella zona di Cremona. Il santo crebbe insomma in una famiglia che godeva di una certa agiatezza, senza però essere esageratamente ricca: gente normale come tanti, con una vita ordinaria e nella media.

Come molti di noi, Omobono iniziò a lavorare, si sposò e divenne padre di famiglia; una famiglia che non apprezzò particolarmente lo slancio caritativo che improvvisamente colse il santo quando era già un individuo di mezza età. Stando a quanto dicono le agiografie, fu un segno celeste a determinare in lui un netto cambio di rotta: un giorno, dopo aver ricevuto una consistente somma di denaro a titolo di pagamento per alcune merci che aveva appena venduto, Omobono realizzò che le sue mani s’erano annerite. Senza dar peso alla cosa, pensando di essersi sporcato chissà dove, il sarto andò a lavarle ma restò sgomento nel realizzare che il lerciume non se ne andava. Gli parve che quello fosse un segno divino, mandato dal cielo per ammonirlo: la sua smania di guadagno, cresciuta a dismisura, stava finendo con lo sporcare la sua anima facendogli perdere di vista le cose davvero importanti. Omobono cedette dunque il suo negozio e si dedicò ad attività caritative, utilizzando la sua influenza per ricomporre i dissidi cittadini e trasformando un’ala della sua casa in un ospizio in cui provvedeva a fornire pasti caldi ai bisognosi.

Quei tanti santi laici dell’Italia comunale

Omobono morì ottantenne il 13 novembre 1197 e fu immediatamente chiamato “santo” dai suoi concittadini. Poco più d’un anno più tardi, anche papa Innocenzo III si unì al coro: nel gennaio 1199, il santo di Cremona fu il primo laico (non nobile e non martire) ad andare incontro a un processo di canonizzazione.

Ma se fu il primo, non fu certo l’unico: in quegli stessi anni, molte città del centro-nord Italia assistettero a un fiorire di santità laicale.

San Ranieri di Pisa († 1160), figlio di un ricco mercante, rifiuto di rilevare l’attività paterna e cercò la sua vocazione in un pellegrinaggio in Terra Santa; rientrato in patria, scelse di spendere le ricchezze ereditate in attività caritative a favore dei più poveri.

Geraldo Tintore († 1207), che a Monza aveva messo da parte una piccola fortuna svolgendo, per l’appunto, il mestiere di tintore di lana, restò sgomento nel toccare con mano la miseria in cui era sprofondata la vicina Milano dopo il lungo assedio a cui era stata sottoposta per mano di Federico Barbarossa. Decise allora di dedicare ad attività assistenziali una porzione significativa dei beni di famiglia, aiutando in particolar modo gli orfani e le vedove di guerra.

Raimondo Zanfogni († 1200), ciabattino di professione, era marito amatissimo e padre di famiglia: perse tutti i suoi affetti nell’arco di pochi anni, probabilmente a causa di un’epidemia, e scelse di dedicare ai poveri i risparmi che fino a quel momento aveva accumulato a vantaggio dei suoi figli. Nella città di Piacenza, si dedicò a un attivismo ad ampio raggiò: creò mense per i poveri, orfanotrofi per i bambini abbandonati, rifugi per le prostitute che volevano cambiare vita.

Santificarsi nel mondo e sul posto di lavoro – nel Medioevo!

Lo storico Andrè Vauchez, che a La santità nel Medioevo ha dedicato uno studio poderoso, fa notare che «tutti i santi del tipo descritto ci sono presentati dai loro biografi come dei militanti “impegnati”»: un dettaglio rilevante se pensiamo che, fino a pochi decenni prima, le agiografie che andavano per la maggiore tendevano a dar rilievo alla fuga mundi di quei religiosi che decidevano di andarsi a chiudere in un eremo, dedicandosi a una vita di contemplazione. Questi santi, invece, stettero nel mondo e agirono per cambiarlo in meglio; ma non solo.

Come fa notare lo studioso, «l’altro aspetto interessante che rileviamo nella vicenda biografica dei personaggi in questione è il loro atteggiamento nei riguardi del lavoro. Tutti, infatti, provennero dal “popolo”, ovverosia dalla piccola e media borghesia artigiana e mercantile, e tutti praticarono un qualche mestiere». Un altro elemento inedito: «presso la tradizione ecclesiastica medievale, considerata nel suo insieme, le dette forme di lavoro non godevano di favore alcuno»; non perché ci fosse qualcosa di male nella professione di mercante in sé e per sé, ma perché si temeva che maneggiare troppi soldi finisse con lo spingere a scomodi compromessi, pensando al guadagno più che a ogni altra cosa. Effettivamente, molti di questi santi medievali decisero, a un certo punto della loro vita, di abbandonare il lavoro o comunque di fare un netto downshifting (come diremmo oggi in termini moderni); eppure, come scrive lo storico Vauchez, «durante il Duecento, notiamo attuarsi un’evoluzione tendente a mettere in valore in lavoro».

Facio da Cremona († 1272) non rinunciò mai al suo mestiere di orafo, e anzi utilizzò le sue competenze a vantaggio della Chiesa cominciando a fabbricare oggetti a uso liturgico che poi donava alle piccole pievi che ne erano sprovviste.

Pietro il Pettinaio († 1289) costituisce un caso ancor più eclatante, che davvero si potrebbe definire di santificazione sul posto sul lavoro: l’imprenditore senese, che si guadagnava da vivere commercializzando pettini per telai, applicava prezzi particolarmente bassi e gettava via tutta la merce che gli pareva anche solo minimamente fallata, facendone una questione d’onore: «io non voglio che niuna persona abbia da me mala mercatantia» spiegò più volte, a quanto si legge nella sua agiografia.

Certo: la spiritualità di questi filantropi dell’Italia comunale è ancora molto lontana da quella che oggigiorno viene espressa dai santi a noi contemporanei. Molti di questi imprenditori aureolati spesero a vantaggio dei poveri il loro intero patrimonio; in ciò, ben pochi ebbero il sostegno della famiglia, molti entrarono in lite con i loro parenti; moltissimi scelsero prudentemente di rimanere celibi. Insomma: scelte di vita estreme, che ricorrono di rado nei modelli di santità laicale del Novecento. Ma, come fa notare Andrè Vauchez, «quanto riusciamo ad intravedere della vita di tali personaggi, nei testi agiografici e nella documentazione coeva, risulta abbastanza nuovo per autorizzarci a dire che la corrente di spiritualità laicale di cui quei santi furono esponenti costituisce senz’ombra di dubbio quello che la spiritualità medievale conobbe di più avanzato e di più “moderno”».

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