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“Chi mi ammazza a me”: la battuta di don Roberto prima dell’omicidio

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Basilica Cattedrale di Como

Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 03/12/22

Un detenuto, Zef Karaci, ha avuto un rapporto diretto e stretto con don Roberto Malgesini. Racconta su di lui fatti inediti e lo definisce un "santo"

Definisce don Roberto Malgesini un «santo»: d’altro canto durante la detenzione, per Zef Karaci è stato come un padre, poiché gli dispensava consigli spirituali e addolciva la sua permanenza dietro le sbarre. 

L’omicidio di don Roberto Malgesini 

Don Roberto, come molti ricordano, è il prete ucciso a Como da un bisognoso che aiutava. Fu un omicidio efferato e che scosse molto l’opinione pubblica che conosceva il buon cuore del sacerdote. Zef conosceva molti aneddoti inediti sull’amico “don Roby”, come lo chiamava affettuosamente, e ne ha raccolto il pensiero nel libro Don Roberto Malgesini” (Cantagalli). 

L’arresto e la detenzione di Zef

Zef è stato detenuto al carcere di Como. «Arrivo dall’Albania, Sono finito in carcere a ventidue anni. Un’età molto delicata, non perché esista un’età più giusta per finire in carcere, ma a me è capitato così. Scelte di vita sbagliate, amicizie sbagliate, non lo dico per giustificarmi, è solo per descrivere un po’ quella realtà». 

DON ROBERTO MALGESINI

“Dobbiamo solo ringraziare il Padre Eterno”

Per lui, don Roberto Malgesini «era un santo, e nessuno di noi è in grado di ripresentare in pieno un santo, semplicemente perché un santo, come lo era lui, è un mistero, fatto da Dio per Dio! Per questo noi dobbiamo solo ringraziare il Padre Eterno per avercelo donato, per avercelo fatto incontrare, senza star lì tanto a pensare come era don Roby!». 

L’ultimo incontro con don Roberto

L’ultima volta, racconta nel libro, lo ha incontrato due giorni prima dell’omicidio. «Erano circa le nove e trenta di domenica 13 settembre 2020 l’ultima volta che vidi e incontrai don Roberto. Chi lo avrebbe mai detto che quella sarebbe stata l’ultima volta?». 

Tra liturgia e scherzi 

Don Roberto Malgesini venne a celebrare la messa al posto del cappellano. «Ricordo, quando lo salutai al mattino, che mi chiese di organizzare le letture della S. Messa: prima Lettura, Salmo responsoriale, seconda Lettura e Preghiera dei Fedeli. Trovai subito quattro ragazzi, organizzai anche i canti per la liturgia, (riusciti molto stonati, perché a causa del Covid, chi suonava di solito, cioè i volontari esterni, non aveva avuto accesso al carcere) e prima di cominciare, mentre aspettavamo che scendessero in chiesa gli uomini da tutte le sezioni, io cominciai a scherzare, come eravamo abituati a fare io e don Roby».

La frase che sconvolse Zef

Zef chiede «tante cose al don, aggiornamenti, soprattutto sulla situazione drammatica della pandemia, che fuori stava massacrando un po’ tutti. Poi, la domanda delle domande, quella strana che ti fa muovere il cuore: come stai don Roby, sei felice? E lui, come sempre, con una tranquillità e umiltà che lo distinguevano, mi rispose: “Zef, sto benissimo, sono felice, e sto davvero da Dio”. Poi, gli chiesi se avesse incontrato il Covid? Lui rispose: “A me il covid non può farmi niente, ci vuole ben altro per fermarmi, chi mi ammazza a me?”. Ecco, questa frase me la porterò dentro per sempre». 

“Aveva ragione lui”

«Aveva ragione lui, “ci vuole ben altro per fermarmi, chi mi ammazza a me”. Lo capii soltanto qualche mese dopo – aggiunge Zef – quando iniziai a ricevere lettere da tantissime persone, che mi scrivevano di don Roberto, mi raccontavano del bene che aveva fatto loro. Chi lo aveva incontrato, spesso non si era accorto della grandezza di quest’uomo».

“Strumento di tenerezza

Nel libro è riportato un commento su don Roberto Malgesini di padre Giovanni Milani, Cappellano al carcere di Como dal 2004 al 2017. 

«Don Roberto per dieci anni mi ha aiutato ad essere strumento di tenerezza e portare luce e speranza in carcere, ogni mercoledì e venerdì – spiega padre Giovanni – ma anche varie domeniche e momenti forti come Natale e Pasqua, lui dava la disponibilità a trascorrere del tempo dietro le sbarre per incontrare, parlare e conoscere i detenuti e donare misericordia. Grande è stato il suo aiuto e posso dire con fermezza che il suo sguardo attraversava le sbarre delle celle per entrare nel cuore delle persone. Definisco don Roberto prete di tutti, ha vissuto il Vangelo con lo stile della semplicità nella grandezza del dono della misericordia». 

Un prete che andava oltre le sbarre

«Lui andava oltre le mura del carcere – conclude padre Giovanni – aldilà delle sbarre rosse di ogni cella, lì dove le preghiere sembrano essere mute e inascoltate: è lì che permetteva ai de- tenuti di fare esperienza della tenerezza di Dio. «Lì dove c’è il massimo della consapevolezza dell’errore, lì dove abbonda il peccato, la misericordia è più visibile».

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