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Un’alternativa all’aborto per bambini ancora non nati estremamente malati

Mother cradling newborn

Anneka | Shutterstock

John Burger - pubblicato il 12/12/22

Il Vaticano ospita un webinar internazionale sulle cure palliative perinatali

Mentre era stesa sul lettino di una clinica locale, nell’oscurità della stanza delle ecografie, Monica

Canetta ha sentito qualcuno pronunciare una frase strana:

“Incompatibile con la vita”.

Non aveva senso per la 32enne, che insieme al marito Carlo aspettava il terzo figlio.

“Ma è già vivo”, ha pensato.

Come se lei – o chiunque altro nella stanza – avesse bisogno di una prova di questo, sullo schermo si vedeva il battito del suo cuoricino.

“Incompatibile con la vita”. Avrebbe imparato a tempo debito cosa volesse dire quella frase sconosciuta, almeno per gli operatori sanitari che stavano controllando la sua gravidanza. Dopo altri test, a Monica e Carlo è stato detto che il loro Matteo aveva la Trisomia 18, una malattia genetica che in genere non consente a un bambino di sopravvivere a lungo dopo la nascita – se ci arriva.

Una notizia devastante per i genitori in attesa, non c’è dubbio.

Gli operatori sanitari hanno continuato a offrire altri test, compresa l’amniocentesi, dicendo che più informazioni avessero avuto i genitori, più avrebbero potuto decidere come procedere.

“Volevo dare al mio bambino ogni possibilità che la medicina moderna potesse offrire”, ha scritto Monica in un editoriale del 2021 su USA Today. “Ho sottovalutato, tuttavia, quanto sarebbe difficile trovare un medico che sostenesse la mia scelta”.

Le era chiaro che tutti avrebbero dato la priorità a una scelta particolare – l’aborto. 

“Non ho mai sentito le parole che desideravo tanto: ‘Non preoccuparti. Cosa vuoi fare? Ti aiuterò”, ha scritto.

Fortunatamente, attraverso il suo parroco ha conosciuto la dottoressa Lucy Bayern-Zwirello del St. Elizabeth’s Medical Center di Boston. Le sue parole non avrebbero potuto essere più diverse da quelle che aveva ascoltato in clinica. “Il tuo bambino è bellissimo”, le ha detto la dottoressa, responsabile del reparto di Medicina Materna-Fetale del St. Elizabeth’s, mentre eseguiva un’ecografia. “Sono felice di accompagnarvi. Vediamo cosa farà il bambino”.

Questo non ha cambiato l’esito inevitabile della vita di Matteo, che aveva ancora la Trisomia-18, ma ha fatto un’enorme differenza per Monica e per la capacità della sua famiglia di far fronte alla tragedia.

La dottoressa Bayern-Zwirello “sapeva che ci tenevamo davvero a battezzare il bambino prima che morisse, così quando ero alla 35ma settimana e lei ha visto che il bambino non cresceva più, si è resa conto che era il momento di portarlo fuori, perché in quel modo c’era la possibilità che nascesse vivo, e così ha indotto il parto”, ha detto Monica in un’intervista. 

“Poteva sembrare strano pensare alla morte di un neonato così bello, ma era così”, ha scritto. “Matteo è morto circondato da una famiglia amorevole e affidato alle cure di uno staff medico che ha aiutato a dargli la morte degna che meritava”.

“Lascia perdere”

La storia di Monica Canetta è insolita per via della relativamente scarsa frequenza di condizioni prenatali che limitano e mettono a rischio la vita, ma tra la minoranza di famiglie che ricevono diagnosi devastanti come i Canetta, una percentuale in crescita lenta ma costante sta scoprendo che ci sono alternative all’interruzione della gravidanza. La definizione che riguarda queste alternative è “cure palliative perinatali”.

Il Vaticano ha acceso i riflettori sulle cure palliative perinatali, o PPC, dalle iniziali in inglese. All’inizio di questo mese, la Pontificia Accademia per la Vita ha ospitato un webinar, Perinatal Palliative Care. Foundation & Experiences, con pionieri del movimento e professionisti provenienti dagli Stati Uniti e dall’Europa. 

L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha affermato in alcune osservazioni introduttive che le PPC sostengono “il desiderio delle madri e delle famiglie di incontrare il loro bambino alla nascita e di celebrare la sua vita, anche se brevemente”. Le PPC si “impegnano a dare conforto ai piccoli pazienti, rispettando la loro dignità di persona, senza abbreviare o prolungare artificialmente la loro vita”.

“La buona notizia è che in una cultura dello scarto ci sono sempre più genitori che chiedono di accompagnare il loro bambino gravemente malato fino alla fine”, ha aggiunto l’arcivescovo.

Il dottor Byron Calhoun, professore del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia alla West Virginia University di Charleston, ha detto ai partecipanti al webinar vaticano che lui e alcuni dei suoi colleghi hanno sviluppato l’idea di un hospice perinatale circa 25 anni fa, “fondamentalmente sulla base dell’idea che all’epoca non avevamo nulla da offrire ai nostri pazienti”.

Prima di ciò, ha detto, i medici dicevano ai pazienti “solo di superare quell’esperienza”.

Il medico ha affermato che l’obiettivo delle PPC è quello di “amare queste donne e le loro famiglie”. Porre fine a gravidanze problematiche, ha spiegato, è un modo per “cortocircuitare la capacità di piangere e di vivere un lutto partecipativo”. Secondo diversi studi citati, le donne che abortivano bambini con gravi anomalie soffrivano di problemi emotivi. Uno studio olandese, ad esempio, ha rilevato che a quattro mesi dall’aborto, il 50% delle donne studiate soffriva di stress post-traumatico.

“Non è quindi qualcosa che la gente semplicemente fa e poi supera”, ha detto. “È un evento molto significativo, e come vediamo, è abbastanza traumatico per i pazienti e le loro famiglie… Quello che hanno scoperto è che le donne che hanno seguito le cure di hospice, portando i loro bambini, partorendoli, erano meno disperate e avevano livelli inferiori di depressione, come anche i loro partner, rispetto alle donne che avevano scelto di porre fine alla loro gravidanza”.

Genitori e pazienti non sono gli unici beneficiari delle PPC, ha sottolineato Calhoun. Dopo un breve periodo di sperimentazione, ha aggiunto, la pratica delle PPC “ha trasformato il nostro dipartimento di travaglio e parto da un luogo in cui queste persone si sentivano impotenti e non avevano la possibilità di assistere questi pazienti alla capacità di offrire compassione e cure amorevoli e un ambiente piacevole in cui questi pazienti potessero amare i loro figli”.

Legame

Nel 2019, i progressi nello sviluppo dei programmi PPC in tutto il Paese erano stati tali che l’American College of Obstetrics and Gynecology ha pubblicato un parere dicendo che le cure palliative perinatali devono essere una delle opzioni da offrire alle donne che ricevono una diagnosi di vita fetale limitante. Il documento è stato approvato nello stesso anno dalla American Academy of Pediatrics

Ma cosa ne pensano le madri? Calhoun ha riferito che gli studi hanno scoperto che le madri “non vogliono vedere il loro bambino trattato come un problema o come una cosa senza speranza. Apprezzano l’idea che si accetti che si prendano cura del bambino, che portino avanti la loro gravidanza e e non vengano vessate con pressioni ad abortire o ad avere un parto anticipato. Offrire loro opzioni, dare un piano di nascita, fare le cose che vorrebbero fare per il loro bambino, fornire cure illimitate in un luogo speciale e sostenere la famiglia, sostenere le madri nelle loro decisioni e magari permettere loro di prendere il loro bambino a casa dall’hospice se necessario”.

Ha partecipato al webinar anche un altro pioniere del movimento, il dottor Brian Carter, docente di Pediatria (neonatologia) presso il Dipartimento di Medical Humanities & Bioethics dell’Università del Missouri-Kansas City School of Medicine, spiegando che le PPC di solito includono pianificazione per la nascita, supporto emotivo e spirituale, fornitura di cure palliative perinatali e neonatali al momento della nascita “per quanto possa durare la vita e poi come sostegno al lutto”.

“Il modello delle cure palliative nell’ambiente perinatale è passato da uno che si occupava solo del sollievo dal dolore al cercare ora di migliorare il legame materno”, ha dichiarato Carter.

La dottoressa Elvira Parravicini, professore associato di Pediatria presso il Columbia University Irving Medical Center, ha descritto un programma PPC che ha sviluppato, dicendo che la sua missione è “onorare la vita dei bambini con condizioni limitanti creando uno spazio sicuro e amorevole per il legame, l’attaccamento, il comfort e la gioia per loro e le loro famiglie nel viaggio perinatale”.

Secondo la Parravicini, ilNeonatal Comfort Care Program della Columbia include una componente prenatale definita come un progetto di assistenza offerto alle donne che scelgono di portare avanti la loro gravidanza con una diagnosi fetale di condizioni che minacciano la vita. Il piano include consulenza neonatale e la preparazione di un progetto di assistenza per quando il bambino nascerà e la diagnosi sarà confermata.

“La componente specifica include l’assistenza medica diretta al bambino in base alla diagnosi, alla prognosi e alle preferenze familiari”, ha spiegato. “Il piano di cura può includere la cura del comfort, che è una cura medica e infermieristica del bambino diciamo alla fine della vita, o le cure palliative, che possono essere definite come un rapporto di sostegno alle famiglie e ai loro bambini”.

Al di là della cura particolare per i singoli casi, in generale, il centro si concentra sul permettere al bambino di legare con la famiglia e “di essere al caldo, cosa che si ottiene con il contatto pelle a pelle”. “Vogliamo alleviare la fame e la sete … e alleviare il dolore. L’alimentazione è uno dei pochi piaceri dei bambini, anche quando la loro vita è breve. Possiamo nutrirli con una piccola siringa; con un biberon, se sono in grado di prenderlo, o con l’aiuto di altri dispositivi. Chiamiamo dei consulenti per l’allattamento”.

Quanto ai genitori, “sosteniamo e incoraggiamo la preghiera con un cappellano o di consultare uno psicologo”.

In aumento, ma non abbastanza rapidamente?

Ana Martin-Ancel, neonatologa presso l’ospedale pediatrico spagnolo SJD Barcelona, ha affermato durante il webinar che il sostegno alla famiglia “deve iniziare al momento della diagnosi, perché questa può avere un impatto tremendo sulle famiglie. È uno shock”.

“La diagnosi genera una perdita di identità, una sensazione di fallimento e isolamento”, ha detto la Martin-Ancel. “Si perde l’immagine del proprio figlio sano e emergono molte paure: la famiglia si sente in colpa. La madre si chiede se sia stato il farmaco che ha preso o non ha seguito un certo stile di vita. La famiglia ha anche paura della sofferenza, e a volte c’è il rifiuto dell’idea di avere un bambino malato, il timore che questo abbia un impatto sulla vita sociale del figlio. Un genitore potrebbe non sentirsi all’altezza del compito. Le famiglie devono prendere decisioni difficili, e farlo ìin un tempo molto breve”.

L’esperta ha affermato che i piccoli pazienti “hanno il diritto di ricevere questo tipo di cure, e anche il tipo di cure palliative che viene offerto agli adulti”.

La Martin-Ancel ha aggiunto che il personale medico è sfidato a capire come e cosa si può fare “perché queste esperienze dolorose abbiano un impatto positivo sulle famiglie. Come possiamo incoraggiare la famiglia ad apprezzare ulteriormente la vita e l’esperienza vissuta, nonostante la morte del bambino?”

Secondo il sito web perinatalhospice.org, i programmi PPC sono presenti in 46 Stati statunitensi su 50 e in 10 province del Canada. I sostenitori sperano che il loro numero continui ad aumentare.

È l’auspicio anche di donne come Monica Canetta, che, se qualcuno non le avesse indicato un centro di cure palliative neonatali in un ospedale vicino, si sarebbe sentita sola nella sua battaglia per la sacralità della vita di Matteo.

Alla fin fine, si tratta di essere trattati con dignità, che si parli del genitore o del bambino. Per ricordarlo ai colleghi, il dottor Calhoun li fa pensare a tutto dal punto di vista del paziente.

“Cosa può essere più bello nella vita che avere qualcuno ti ama e si prende cura di te ogni minuto della tua vita, che si tratti di pochi minuti o poche ore, fino a quando, come diciamo noi, avviene il passaggio?”.

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