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È vero che la Chiesa impediva la dissezione dei cadaveri per studi anatomici?

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Lucia Graziano - pubblicato il 25/01/23

A sostegno di questa affermazione, viene citata frequentemente una bolla emanata da Bonifacio VIII. Ma cosa diceva, esattamente?

Negli ambienti anticlericali, l’affermazione viene data per vera: “sì”, dicono in molti, “la Chiesa impedì per secoli di effettuare dissezioni sui cadaveri e così facendo si rese colpevole di un mancato progresso dello studio dell’anatomia, a grave danno della scienza medica”.

Per contro, gli apologeti cattolici tendono a derubricare il tutto a leggenda nera: “giammai accadde qualcosa del genere, anzi la Chiesa incoraggiò e favorì quanto più possibile l’esercizio dell’arte medica in tutte le sue forme”. 

Ma allora, chi ha ragione? 

Con la premessa che l’ago della bilancia pende a favore degli apologeti, bisogna ammettere che (come spesso capita in questi casi) la questione è sfumata e complessa. E allora, cerchiamo di fare un po’ di luce su questa vicenda, partendo dalla domanda più importante: questo divieto di dissezionare i cadaveri, fu emesso per davvero oppure no? 

1299: Bonifacio VIII e la bolla Detestande feritatis

La risposta alla domanda è “no”: tecnicamente, la Chiesa non emanò mai una legge che impediva di dissezionare cadaveri tout court

Vi fu però una bolla pontificia che disse qualcosa di effettivamente simile: stiamo parlando della Detestande feritatis, promulgata da Bonifacio VIII nel 1299 (e talvolta citata anche col titolo De sepolturis: improprio, ma a suo modo eloquente). La «ferocia da tener lontana» cui si riferiva il papa consisteva nell’abitudine di «squartare i corpi umani»: ma in che contesto, esattamente?

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare intuitivamente, Bonifacio VIII non si riferiva alle dissezioni che avevano luogo in ambiente medico. A chiarire immediatamente i termini della questione sono le parole stesse del pontefice, che spiega:

Quando un nobile o un alto dignitario muore lontano dal suo paese, come frequentemente accade, se costui aveva espresso il desiderio di essere sepolto nel suo paese natio, o comunque lontano dal luogo in cui è morto, alcuni cristiani, soggiacendo a un’usanza perversa motivata da una premura sacrilega, ne eviscerano il cadavere e, dopo averlo smembrato orribilmente e poi tagliato a pezzi, lo gettano nell’acqua per farlo bollire sul fuoco. Quando alfine la carne si è distaccata dall’osso, spediscono le ossa alla città che era stata scelta per l’inumazione. 

È massimamente abominevole che si chiami a salvaguardia di ciò la divina maestà, tantopiù che tutto ciò che riguarda questa pratica è assolutamente orripilante, a motivo del rispetto che si deve a una salma.

Insomma, non stiamo parlando di un medico che affonda rispettosamente il bisturi nel corpo di un paziente deceduto per cercare di comprendere quale male l’abbia ucciso e trarre qualche indizio per cercare una cura. Stiamo parlando (absit iniuria verbis) di gente che macellava corpi umani e li faceva bollire a pezzi in un grosso pentolone, asserendo per di più di star agendo perché spinta da genuino spirito di carità cristiana, per assecondare il desiderio del defunto di essere sepolto in quella certa chiesa a lui cara.

Per quanto ci possa sembrare incredibile questo scenario, episodi di questo tipo erano all’ordine del giorno quando ci si trovava a dover gestire le esequie di un “pezzo grosso” a cui era capitato di morire lontano da casa. Per citare un caso eclatante, era andato incontro a un simile destino anche re Luigi IX di Francia, oggi venerato come santo dalla Chiesa, che era morto in crociata nell’agosto 1270. Messi di fronte alla necessità di organizzare le esequie per il re santo, i funzionari di corte si erano trovati in forte imbarazzo: il caldo estivo imponeva di agire rapidamente, e lo stato di guerra sconsigliava di seppellire il monarca nel luogo in cui era morto, cioè in terra nemica. Oggigiorno, basterebbe un volo charter a risolvere il problema con la dovuta delicatezza, ma all’epoca i commilitoni di re Luigi avevano optato (certamente in buona fede) per quella discutibile soluzione che, qualche anno più tardi, Bonifacio VIII avrebbe descritto con palpabile sdegno.

E se quello di Luigi IX fu un caso eclatante a causa della notorietà del personaggio, non fu (purtroppo) un caso unico. Fu contro questo malcostume che Bonifacio VIII usò parole durissime, vietando categoricamente questa pratica barbara e comminando la scomunica a tutti gli individui che, da quel momento in poi, avessero trasgredito il suo divieto. 

Gli scrupoli di coscienza di medici un po’ troppo inquieti

Insomma, la bolla di Bonifacio VIII non aveva nulla a che vedere con le autopsie e le dissezioni anatomiche da effettuarsi a scopo di studio medico. Anzi: nel 1316, e quindi una quindicina d’anni dopo l’entrata in vigore della bolla papale, il cattolicissimo Mondino de’ Liuzzi, medico chirurgo di stanza a Bologna, potè pubblicare in tutta tranquillità il suo trattato Anathomia, dando conto delle sue indagini operate sui cadaveri umani. Il trattato, che da molti è considerato l’atto di nascita della scienza anatomica propriamente detta, non costò a Mondino alcun tipo di sanzione; dopo di lui, furono molti i medici che operarono dissezioni cadaveriche per aumentare la loro conoscenza dei meccanismi di funzionamento del corpo umano.

Fu solo nel XVIII secolo che, in alcuni ambienti illuministi venati da anticlericalismo, cominciò a diffondersi la convinzione che la bolla di Bonifacio VIII avesse, di fatto, bloccato per secoli il progresso della scienza medica. Una affermazione oggettivamente falsa; che però, per onestà intellettuale, dovremo temperare con una considerazione che va in senso opposto: se la bolla di Bonifacio VIII non vietò mai gli studi anatomici, ciò non di meno fece sorgere in alcuni fedeli degli scrupoli di coscienza – all’atto pratico, immotivati. 

In alcuni fedeli, s’era fatta strada l’idea che le anatomie praticate sui cadaveri fossero uno scempio intollerabile, senza se e senza ma. Alcuni medici sentivano tremare la mano nell’affondare la lama nelle carni di un defunto, temendo di star violando in qualche modo la sacralità del corpo. Fortunatamente si trattava di casi estremi, isolati, che tuttavia meritavano d’essere trattati con la dovuta cura pastorale: e fu papa Sisto IV, nel settembre 1482, a intervenire una volta per tutte sulla questione.

1482: il breve di Sisto IV ai chirurghi di Tubinga

L’assist perfetto gli arrivò da una lettera che gli era stata inviata dal rettore dell’università di Tubinga, presso la quale prestavano servizio alcuni medici che si sentivano a disagio all’idea di operare necroscopie a scopo di studio. Con paterna fermezza, Sisto IV si rivolse «al rettore, ai dottori e agli scolari dello Studium», dando loro facoltà di operare in serenità sui «corpi, o cadaveri» procedendo a «sezionarli e smembrarli secondo i canoni e la prassi dei medici». Unico vincolo: quello di trattare i corpi con il dovuto riguardo, avendo cura di restituirli a una chiesa per tributar loro una giusta sepoltura non appena le indagini scientifiche si fossero concluse. 

Insomma: gli scrupoli eccessivi erano da mettere al bando; nella rispettosa indagine anatomica, non v’era nulla di peccaminoso. E, sorprendentemente, furono proprio i papi a voler dare il buon esempio: in età moderna, si affermò la routine di imbalsamare i corpi dei pontefici defunti e di operare, con l’occasione, una rapida autopsia. Il primo papa ad andare incontro a questo destino fu Giulio II, morto nel 1513: gli archiatri pontifici ritenevano che un rispettoso esame anatomico potesse essere utile per fare chiarezza sulle cause del decesso e per stabilire, col senno di poi, se ci fosse stato qualcosa di perfettibile nelle cure mediche che erano state tributate al paziente. L’intento non era quello di cercare un colpevole su cui scaricare la colpa della morte, ma (banalmente) quello di far progredire la conoscenza medica, nella speranza che quella rapida indagine potesse fornire agli archiatri informazioni utili su come curare al meglio i pazienti del domani.

Oggigiorno, persino noi moderni ci stupiremmo, di fronte alla richiesta di poter effettuare un’autopsia su un paziente malato e anziano, morto per circostanze naturali; ma i papi del Rinascimento, a quanto pare, approcciavano la questione con molta più disinvoltura. Di fronte a questa evidenza, sarebbe ben difficile sostenere ancora la tesi secondo cui la Chiesa si oppose agli studi anatomici in virtù di un pregiudizio oscurantista: a conti fatti, anche questa andrò derubricata a fake news a tema clericale. 

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