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Come aiutare i piccoli a superare l’angoscia della prima separazione?

mother, son, baby, cry,

Vasilii Koval I Shutterstock

Edifa - pubblicato il 12/11/20

Lasciare i genitori e ritrovarsi in un nuovo ambiente con nuove persone può essere difficile per i bambini. E se la separazione va male, può causare loro vari problemi psicologici. Ecco alcuni consigli per ridurre l'ansia e le paure dei vostri piccoli.

di Agnes Flepp

Lasciare la sicurezza dei genitori, soprattutto quella della madre, è una tappa necessaria ma difficile per i bambini. La psicologa Bernadette Lemoine, autore di Maman, ne me quitte pas! (Mamma, non mi lasciare) e L’Apprentissage des séparations (L’apprendimento delle separazioni) offre ai genitori delle soluzioni per riuscire a separarsi con maggiore facilità con i figli.

Secondo lei, l’angoscia da separazione è alla base della maggior parte dei problemi psicologici vissuti da bambini e adolescenti.

Nove volte su dieci, la causa principale delle loro difficoltà psicologiche è l’angoscia da separazione. Si tratta di un disturbo d’ansia, che gli psicologi chiamano “SAD” (Separation Anxiety Disorder) e che si manifesta soprattutto durante l’infanzia e talvolta anche durante l’adolescenza.

Siamo fatti per essere in comunione e il bambino si costruisce su una relazione d’amore. A volte succede che egli viva una separazione precoce come un trauma, un abbandono o una perdita d’amore. Nasce allora un’angoscia, paragonabile ad un’angoscia di morte, tanto più essa interviene presto nella vita del bambino o che la separazione duri a lungo. Questa angoscia può riapparire ad ogni nuova separazione, anche se innocua, e può causare vari disturbi. La comprensione dei meccanismi all’opera sarà come una chiave che permetterà di riaprire le porte che sono state chiuse nella vita.

Quali separazioni, concretamente, possono bloccare la crescita di un bambino?

Se il processo di nascita impedisce alla madre di accogliere il figlio (ad esempio in seguito ad un parto cesareo con anestesia generale), se il bambino viene separato dalla madre perché si trova in un’incubatrice o in un reparto di terapia intensiva, potrebbe sentirsi abbandonato. Egli non può ancora comprendere razionalmente che la separazione di cui soffre è solo temporanea, che la sua vita non è in pericolo e che non è un segno di non amore materno. C’è allora il rischio che egli manifesti la sua angoscia e che poi reagisca contro ogni nuova separazione dalla madre. Si aggrapperà a lei in qualsiasi modo, fisicamente o psicologicamente. A meno che, al contrario, non si rifiuti oramai di aggrapparsi a lei per paura di dover soffrire di nuovo in caso di una nuova separazione. È come se reagisse ad un tradimento e non riuscisse più ad entrare nella fiducia, nell’attaccamento. Si isola e diventa indipendente, non dipendente.

Un altro passo decisivo è lo svezzamento. Per il bambino è una perdita, una separazione. Se avviene in cattive condizioni, il bambino rischia di viverlo come un rifiuto. Ci possono essere molte altre cause dell’angoscia da separazione, che sembrano banali: invasione di mansioni e attività che occupano gran parte del tempo della mamma, la malattia di un altro bambino o della madre, trasloco, ricovero in ospedale, cambiamenti improvvisi o frequenti della tata, lutto, un padre non sufficientemente implicato, l’arrivo di un fratellino o di una sorellina, l’assenza dei genitori, l’ingresso in un asilo nido o a scuola…

C’è anche l’angoscia della madre di fronte al bambino che cresce: è lei che è ferita dal normale e necessario distacco del suo bambino e reagisce proteggendolo eccessivamente, trattandolo come un bebè. Il bambino ne approfitta, ma a sua volta reagisce contro questa “prigionia” che perturba gravemente la relazione e non prepara il bambino alle future separazioni.

E ogni volta che si verifica uno di questi eventi, c’è una ferita che provoca una reazione d’angoscia?

No, certo che no! Questo dipende dal temperamento, dalla sensibilità di ciascuno; dalla prima fragilità nell’utero; dal modo in cui l’entourage vive l’evento; dal grado di imprevisto; dalla libertà personale, ecc. A volte basta una sola causa, a volte ne servono di più. Niente è automatico o matematicamente prevedibile! Ad ogni modo, non c’è da preoccuparsi, è probabile che tutto evolva positivamente, purché sappiate ascoltare il vostro bambino e riconoscere i segni di SAD. Sarà necessario poi parlargli con verità, con tutto il cuore, raggiungendolo nella sua sofferenza che lo ha fatto dubitare dell’amore e della vita.

Vivere, significa quindi imparare a separarsi?

Certo. La capacità di autonomia, la maturità e l’equilibrio di una persona dipendono in gran parte dalla sua esperienza di separazione e dall’apprendimento del distacco. Questa è una parte essenziale ma delicata dell’educazione. Nel corso della vita, le opportunità di sperimentare la separazione si moltiplicano. Che sia legata alle fasi della nostra crescita, o a circostanze accidentali, la prova della separazione è sempre come una piccola morte, fino alla separazione finale della morte vera e propria. Finché questo avviene in buone condizioni, il bambino supera questa sofferenza abbastanza facilmente, e guadagna anche una maggiore autonomia: cresce, è felice di vivere. Ma basta che, in questo susseguirsi di separazioni, ce ne sia una vissuta in cattive condizioni, che il bambino rischia di rimanere bloccato in questa sofferenza, o di essere impedito a crescere. Tutte le situazioni che hanno un’analogia con questa separazione traumatica causeranno un rafforzamento del blocco e delle reazioni legate alla sofferenza iniziale.

Come si manifesta questa angoscia?

Con dei disturbi del sonno o dell’alimentazione, delle reazioni caratteriali, rifiuto di andare a scuola, tristezza profonda, insuccesso scolastico legato ad un’angoscia paralizzante, disagi psicosomatici, compensazioni con il cibo, bevande, droghe, difficoltà relazionali, ecc.

Si potrebbe pensare che tutti i bambini saranno colpiti prima o poi da uno di questi sintomi. Quando bisogna preoccuparsi?

Quando il bambino soffre e fa soffrire chi gli sta intorno. Notiamo, schematicamente, due tipi di reazioni nei bambini: quelli che sono in opposizione, nella rottura, nella “tendenza alla ribellione”, e vogliono fare tutto da soli, con comportamenti a rischio. Sono sospettosi dell’amore e non vogliono dovere niente a nessuno. Alcuni “mettono costantemente alla prova” l’amore dei loro genitori cercando di opporvisi, e li mettono in situazioni impossibili con atteggiamenti costantemente provocatori e inaccettabili. Non dobbiamo permettere che ci distruggano, né dobbiamo permettere che si distruggano.

Mentre altri, non volendo correre il rischio di subire una nuova separazione, rifiutano ogni autonomia ed esigono un rapporto d’amore esclusivo. Si rifugiano nella dipendenza. C’è anche chi si distacca dalla vita e si lascia trasportare dalla corrente: “Non sono amato, la vita non mi interessa, mi lascio trasportare”.

Se la separazione è necessaria per crescere, perché l’angoscia sembra inevitabile?

L’angoscia da separazione è legata alla ferita dell’abbandono. Questa ferita interiore è una mancanza in relazione all’infinito desiderio di essere amati che abita in tutti noi. È alla radice di tutte le nostre ferite ed è inevitabile come conseguenza immediata di questa separazione da Dio che è il peccato originale. In effetti, siamo degli esseri feriti già dal grembo materno, poiché siamo separati dall’amore di Dio per cui siamo stati creati; e per questo, diventiamo vulnerabili a qualsiasi mancanza di amore e a tutto ciò che ci sembra tale, e quindi alle separazioni. Creati a immagine di Dio, aspiriamo all’amore perfetto, ma ne siamo privati perché nessuno – nemmeno i nostri genitori – è perfetto. Queste inevitabili mancanze di amore, aggiunte alla ferita originaria, generano sofferenza, angoscia e dubbi sull’amore.

Prima del peccato originale, la separazione non comportava alcuna sofferenza. Ha persino permesso la Creazione: vediamo nella Genesi che Dio, per creare, inizia separando la luce dalle tenebre, le acque dalla terra, la donna dall’uomo, prendendo una costola da Adamo. E “Dio ha visto che era cosa molto buona”! Ma dopo il peccato, tutto questo è stato rovinato. L’educazione è l’arte di imparare ad accettare la separazione e la frustrazione che ne deriva, perché alla fine ci si dovrà separare da tutto e da tutti per raggiungere la comunione totale con Dio. Evitare qualsiasi ferita di separazione ai nostri figli significa non educarli.

Quindi non possiamo evitare di ferire i nostri figli?

No. Nessuno può dare alla luce un bambino “intatto”. Se vogliamo un bambino senza ferite, allora è meglio non averne uno. Insisto su questo punto: i genitori perfetti non esistono. È inevitabile che i genitori feriscano i loro figli. Ma naturalmente faranno del loro meglio per amare, perché è l’amore che guarisce le ferite. È importante che il bambino capisca che i suoi genitori non sono Dio, che non sono perfetti, ma che con l’amore che riceve, anche se gliene manca, può crescere e vivere felice. Il culto della perfezione nell’educazione può essere disastroso. I genitori vorrebbero che la loro educazione fosse un’educazione di “successo”, ma è un’opera che richiede tempo, e quel tempo non è il nostro. Non ci viene chiesto di “riuscire”, ma di amare come meglio possiamo. E il Signore farà il resto.

Le ferite legate alla nascita o quelle dovute a dei traumi in utero sono irrimediabili?

Possono essere notevolmente lenite nella misura in cui la madre, non appena si sente meglio, o il padre, o un’altra persona profondamente affettuosa, parla al bambino con il cuore e lo consola. Al di là delle parole, il bambino “comprende” con la sua consapevolezza d’amore – quella capacità del bambino, fin dal grembo materno, di sentire l’amore o il non amore di cui è l’oggetto – di essere amato. La ferita è quindi di minore importanza.

Cosa succede se le reazioni successive manifestano una ferita che non guarisce?

Ci sarà ancora modo per alleviare il bambino dal peso dell’angoscia spiegando gli eventi traumatici e se è possibile è meglio che lo faccia una terza persona, ad esempio uno psicoterapeuta, e a condizione che queste spiegazioni siano date con amore e compassione. Non è mai troppo tardi. Ma prima interveniamo, meglio è.

Parlare è sufficiente?

No. È necessario anche mostrare tenerezza al bambino attraverso sguardi e gesti affettuosi – carezze, baci, massaggi… Valorizzarlo con dei complimenti: “Sei bella, sono orgoglioso di te, ti voglio bene…” Ma allo stesso tempo, dobbiamo evitare di tenerlo permanentemente in un bozzolo e dargli tutto ciò che desidera. Un minimo di frustrazione è indispensabile. Deve imparare a non essere l’ombelico del mondo…o almeno della sua famiglia.

Dobbiamo spingerci fino a provocare delle occasioni di separazione?

Sì, ma solo se le si prepara, indipendentemente dall’età del bambino. Dobbiamo sempre avvertirlo, dirgli che andremo via ma che torneremo, che ha il diritto di essere triste, ma che la vita non si ferma per questo. È bene far appello alla sua sete di crescere per permettergli di accettare questa separazione temporanea. Questo è particolarmente importante intorno agli 8-9 mesi di età, nell’età sensibile in cui appare l’angoscia, e quando abbiamo gradualmente iniziato a conoscere la separazione con l’asilo nido, o la baby-sitter.

E poi?

Dai 2-3 anni ai 7 anni, le separazioni si moltiplicheranno, si diversificheranno e si allungheranno. Se le prime separazioni prima dei 2 anni sono andate bene, i rischi di angoscia diminuiscono; ma non devono esserci stati eventi traumatici come il lutto o il divorzio… Il padre riveste un ruolo importante, quello di “separatore”. È lui che deve impedire alla coppia madre-bambino di creare un rapporto di fusione. Dopo 7 anni dovrebbe essere lui l’educatore principale.

In generale, come vivere bene questa “piccola morte” che è la separazione?

Possiamo scegliere. O ci rifiutiamo di attraversare la prova, e ci ripieghiamo su noi stessi, distruggendo noi stessi e gli altri, direttamente o indirettamente – e scegliamo un cammino di morte. Oppure accettiamo di attraversare l’angoscia e la sofferenza, rimanendo fedeli all’amore – e andiamo avanti su un cammino di vita. Dobbiamo passare a poco a poco dalla dolorosa sensazione di abbandono subìto, all’abbandono di sé tra le mani dell’Amore. Questa è la dura via seguita da Cristo che, sulla croce, è passato dall’abbandono sofferto (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) all’abbandono fiducioso (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”). Questa è la via della Resurrezione.

Se l’Amore è il nostro compagno di sofferenza (“Per le Sue ferite siamo stati guaiti”, si legge in Isaia), possiamo attraversare la valle della morte, e le separazioni: questo cammino che avrebbe dovuto distruggerci ci farà, al contrario, crescere ed essere più vivi. Le nostre ferite, luogo della nostra fragilità, diventeranno un’opportunità per amare meglio. Sta a noi fare in modo che “le nostre separazioni siano delle ferite piene d’amore”.

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