Gertrud Kolmar
Nel lager (17 settembre 1933)
Quelli che vagano qui non sono che corpi/
e anima più non hanno,/
non sono che nomi nel libro degli scrivani,/
prigionieri: uomini. Fanciulli. Donne./
E vuoti i loro occhi stanno a fissare/
con sguardi che si sgretolano, che crollano dai volti/
per ore, qui, dentro una lugubre buca/
strangolati, calpestati, resi ciechi dalle percosse,/
il loro gemere fra i tormenti, la loro spaventosa follia,/
bestie, che vanno strisciando sulle mani e sui piedi.../
Hanno ancora le orecchie eppure/
mai più potranno udire il loro stesso gridare./
Le prigioni schiacciano, distruggono:/
nessun cuore, nessun cuore più che batta per la rivolta!/
Franta in due, trilla la sveglia sommessa con striduli suoni./
S’affannano istupiditi, nella degenerazione ingrigiti,/
separati dalla variopinta moltitudine umana,/
immobili, bollati a fuoco, pieni di tagli e screpolature,/
come animali da macello che aspettano il mattatore e/
nella cupa apatia non conoscono che trogolo e stabbio./
Su quelle facce soltanto paura, soltanto brividi,/
quando la notte uno sparo agguanta la vittima del/
sacrificio... E nessuno s’è accorto dell’uomo/
che muto in mezzo a loro/
strascica la sua nuda croce là, verso l’esecuzione.
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