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Dio attende alla frontiera

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padre Renato Zilio - pubblicato il 21/06/13

La frontiera è il luogo per eccellenza dell'incontro e del confronto, dell'autonomia e della simbiosi, dell'identità e dell'alterità che si danno rendez-vous

Fin dall'inizio, la vita di ogni essere umano è dono e incontro. Anzi, una successione di doni, una processione di incontri, grandi o meno. La vita ci viene spesso incontro con il volto della gratuità. Ed è sempre anche un invito incessante. Sì, quello a superare le proprie barriere, ogni frontiera, la chiusura nel proprio mondo.

Così anche la mia vita. Mio padre, contadino, mi ha dato il senso della natura, della terra, dell'osservare il grano che matura, la gente che passa, il forestiero che arriva e ti sorprende. Ma anche il senso del contemplare il lavoro che si è fatto nel proprio campo, come Dio nel settimo giorno della creazione. Quasi una distanza salutare e benefica, per dire che quello che si è fatto non ti appartiene del tutto. Mi ha trasmesso, così, il senso della vita come forza segreta, come dono di Dio, come gratuità nelle nostre mani.

Mia madre lavorava in un ospedale; mi ha dato il senso del corpo, della sofferenza, della compassione per l'altro, della vita che nasce e che muore. Il senso appassionato nel donarsi per l'esistenza degli altri, il valore della vita come impegno e come sfida. Entrambi, papà e mamma, mi hanno dato il senso di Dio, della sua presenza nella mia storia, del suo camminare insieme ai miei passi, ai miei sforzi, per rendere la vita più umana, coraggiosa. E soprattutto fraterna.

A due passi dal nostro paese, la città di Padova e la sua università mi hanno dato una formazione letteraria, l'osservazione che si fa attenta e critica, l'espressione come messaggio di vita da coltivare come un campo di grano. Mentre l'altra città vicina, immersa nelle acque della laguna, mi diede già da piccolo il senso dell'isola e del cosmopolitismo, del nostrano e del foresto (colui che viene da fuori) del particolare e dell'universale. Il senso della terra e dell'acqua, del limite e degli orizzonti lontani, della contrada e del mondo. Come, pure, il valore intimo della propria casa e quello lontano dell'avventura.

I missionari scalabriniani, che ho incontrato sul mio cammino di formazione, mi hanno dato la passione e la compassione per gli emigranti italiani all'estero, anzi per ogni migrante, per colui che ricostruisce la sua vita sulla terra degli altri, che “fa sua patria il mondo”. Mi hanno dato il senso e il valore della nostra cultura e della nostra fede, quelle che ci hanno generato e che ci accompagnano in qualsiasi angolo della terra la vita e i suoi imprevisti ci portino.

Parigi e Friburgo in Svizzera mi hanno dato una formazione teologica, l'attenzione e la sensibilità alla mia propria fede, ma anche al mondo e ai valori dell'altro, di colui che appartiene a un'altra religione, ad altre terre, a un'altra cultura. Il carisma scalabriniano mi ha dato il senso della libertà dei figli di Dio, del saper sottolineare e nelle stesso tempo relativizzare le culture dell'uomo, la sua terra di origine. Mi ha dato il senso della vita come itineranza e cammino, soprattutto con chi lo fa con i propri piedi, i propri occhi e la propria esistenza, i migranti. Mi ha fatto comprendere che il destino di ogni uomo è la terra promessa di Dio: la fratellanza tra uomini e culture differenti. Sì, la comunione dei popoli sulla sua santa montagna, quella che un giorno vivremo per sempre insieme a Lui.

Il carisma scalabriniano mi ha inviato in missione: nella grande periferia di Parigi, al Centro interculturale per giovani di Ecoublay (1988-2000), alla Missione cattolica italiana di Ginevra (2000-2006), al Centro Scalabrini di Londra (2007) dove mi trovo attualmente. Con gruppi di giovani o da solo ho avuto l'occasione di vivere il pellegrinaggio nelle piccole comunità cristiane, sparse nell'islam, della chiesa del Marocco e nel deserto del Sahara, con permanenza da una a otto settimana (dal 1995 per sette volte): tempo di incontro con comunità cristiane di frontiera e con le frontiere stesse della propria fede.

Il mio cammino, in fondo, è stato un dono continuo degli altri e degli incontri con l'altro: colui che è stato differente da me, generato da altri mondi. Mi hanno formato, plasmato, incantato, interrogato e stimolato senza misura. Segretamente mi hanno incoraggiato a superare frontiere di ogni tipo: culturale, mentale, linguistico o spirituale. E mi hanno ricordato che la vita è una sfida, un impegno e un'avventura collettiva con un popolo che emigra. Parlare di emigrazione, allora, di emigranti “esige sempre ragionevolezza, equilibrio e lungimiranza. Perché si tratta anzitutto di uomini, in carne ed ossa”.

L'altro, differente da noi o che è minoranza e appartiene a un altro mondo di valori, è sempre un segno misterioso di Dio. Colui che non sta al centro, ma alla frontiera del mondo dell'uomo. La frontiera è luogo teologico, che relativizza le costruzioni dell'essere umano, l'assoluto delle sue conquiste, la centralità dei suoi mondi. La sua ambizione, il segreto senso di onnipotenza. La frontiera è il luogo per eccellenza dell'incontro e del confronto, dell'autonomia e della simbiosi dell'identità e dell'alterità che si danno rendez-vous. Luogo del saper farsi uomo con l'altro, della differenza forse accolta e non rifiutata, del senso dell'incontro come un altro cammino che si incrocia. In fondo, occasione preziosa di scoprire nell'altro un dono e forse un fratello, anche se con diversa fisionomia.

Un uomo di frontiera è l'essere che ha la lunga pazienza di cucire sulla sua pelle un vestito di pezzi di terre e di cieli nuovi. Che abitua l'occhio a vedere paesaggi differenti e a spaziare nell'orizzonte dell'altro come una normalità. Vive in un luogo di sfida, di sintesi e di complessità. 
Contemplare, oggi, tutto questo e intravederne la forza segreta, è come ripassare una vecchia lezione di mio padre. Ed è il medesimo e sempre nuovo volto di Dio: Colui che ti libera da te stesso. Il Dio dell'incontro. Colui che ti attende ad ogni frontiera.

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