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Il conflitto tra israeliani e palestinesi è politico o religioso?

Man prays as rescue workers clean scene of attack in Jerusalem – it

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 19/11/14

Dopo la strage alla Sinogoga gli esperti offrono letture diverse dello scontro

Servono il terrore e l’orrore per ricordare al mondo che la più antica delle sue ferite continua a seminare odio e a spargere sangue, scrive Franco Venturini sul Corriere della Sera (19 novembre). Mannaie da macellaio, coltelli da cucina e una pistola: è con questi strumenti di morte che ieri, all’ora della preghiera del mattino, due cugini palestinesi provenienti da Gerusalemme Est hanno attaccato una sinagoga, ucciso quattro rabbini e un poliziotto e ferito altri sette israeliani prima di essere abbattuti. 

LE REGOLE DELLA SPIANATA
Erano anni che a Gerusalemme non accadeva un episodio tanto grave, ma per misurare la sua vera portata occorre soffermarsi sui dettagli. Obiettivo una sinagoga, all’ora della preghiera. Quattro rabbini assassinati, le loro vesti rituali macchiate di sangue. E a pretesto della strage la presunta (e smentita) intenzione israeliana di cambiare le regole per pregare sulla Spianata delle Moschee. 

LA TESI DEL CONFLITTO RELIGIOSO
Come non vedere nello scontro religioso la motivazione principale di quanto è accaduto? E soprattutto, come non individuare nell’ombra in espansione dell’Isis e del suo fanatismo religioso la mano sciagurata che ha guidato i due cugini palestinesi, che li ha incitati a colpire in quella sinagoga gremita? 

LUOGHI CRISTIANI A RISCHIO
I tradizionali luoghi cristiani, evidenzia Roberto Tottoli sul Corriere della Sera (19 novembre) soffrono da tempo l’erosione delle comunità cristiane orientali e scontano le divisioni confessionali e le diffidenze degli altri attori in gioco. I luoghi sacri più sensibili sono quelli della Spianata, con quella Cupola della Roccia e moschea di al-Aqsa che secondo i musulmani furono teatro dell’ascensione in cielo di Maometto. Ma questi luoghi sono letteralmente costruiti sul Muro del Pianto e su ciò che rimarrebbe del Tempio che, sebbene azzerato dalle antiche distruzioni, sopravvive nelle pietre e nelle fondamenta proprio dei luoghi islamici. 

TRA FANATICI E L'ISIS
L’attenzione ai luoghi religiosi proietta ora lo scontro su un terreno finora accuratamente evitato da Hamas, ma che riecheggia in una regione segnata da slogan jihadisti e con un Califfato alle porte. L’attentato dice in fondo che la difesa dei diritti dei musulmani sulla Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa è una priorità e che insidiarli viene ricambiato con la stessa moneta.

VERSO UNO SCONTRO TRIBALE
Lo scrittore David Grossman denuncia su La Repubblica (19 novembre) che il conflitto sta diventando tribale. «Siamo sull'orlo del precipizio – dice – ciò che oggi vediamo a Gerusalemme, giorno per giorno e quasi ora per ora, è un pericolosissimo precipitare nella dimensione del fanatismo e dell’irrazionalità. Sarà quindi molto più difficile adesso che in precedenza cercare una soluzione del conflitto e forse ciò dovrebbe essere il motivo e la spinta per i leader dei due popoli di agire subito e con la massima potenza, iniziando un processo di dialogo fra loro, invece di insultarsi e incolparsi a vicenda, incitando ancora di più all’odio». 

IMMOBILISMO DEI LEADER
A suo dire l'immobilismo è alla radice dello scontro violento degli ultimi mesi. «Né Abu Mazen né Netanyahu sono responsabili della catena di assassini degli ultimi tempi e certamente nessuno dei due li ha voluti, ma la loro inazione e la loro mancanza di sforzi porta a questa situazione».

SOLUZIONE DI CONVIVENZA
Sostiene Matteo Crimella, giovane biblista, responsabile dell’apostolato biblico della Chiesa Ambrosiana, che a Gerusalemme ha studiato e si è formato per sei anni, "inviato" dal cardinale Carlo Maria Martini: «Senza riconoscimento, senza legittimazione reciproca non si va lontano. Si finisce per rimanere tutti impotenti davanti ad attacchi e a rappresaglie» (Corriere della Sera, 19 novembre).

LA TESI DEL CONFLITTO POLITICO
«Non bisogna arrendersi alle violenze, parlare di coesistenza fra arabi ed ebrei in questa terra è ancora possibile e a rilanciarla potrebbe essere un gesto di re Abdallah di Giordania», rincara su La Stampa (19 novembre)A. B. Yehoshua, lo scrittore israeliano strenuo difensore della soluzione dei due Stati, che dà al conflitto un taglio "politico". «Bisogna impedire che il conflitto israelo-palestinese da nazionale diventi religioso. In passato Israele ha subito attentati terroristici sanguinosi, tremendi, più di quello compiuto ad Har Nof, ma è la prima volta che dei singoli palestinesi entrano sparando dentro una nostra sinagoga. In un’azione personale di terrore». 

LA MEDIAZIONE DELLA GIORDANIA
«La mia speranza – ragiona Yehoshua – è che il dialogo fra Re Abdallah II, Abu Mazen e Netanyahu inizi e porti ai due Stati oppure anche a una confederazione fra tre Stati. È l’unica possibilità che abbiamo di andare avanti. Il mio timore invece è di un contrattacco da parte di fanatici israeliani, capaci di entrare in una moschea e fare fuoco come fece Baruch Goldstein a Hebron nel 1994».

UNA GUERRA CHE PUO' MUTARE
Anche Zvi Schuldiner, docente di politica e di pubblica amministrazione al “Sapir Academic College” di Hof Ashkelon, Israele, evidenzia su Il Manifesto (19 novembre) che c'è il rischio di convertire il conflitto israelo-palestinese — che è un conflitto nazionale e politico, e può, deve trovare soluzione — in un conflitto religioso, islamico-ebraico, che non consente invece  accordi ed è insolubile. 

DUE FRONTI DEBOLI
Schuldiner denuncia che «debole e inefficace, il governo israeliano continua a nutrirsi di provocazioni e incitamenti razzisti; ogni attacco palestinese è un’eccellente occasione per gettare altra benzina sul fuoco. In Europa e nel mondo si susseguono le condanne. Oggi stigmatizzano i palestinesi irresponsabili che con un crimine vergognoso hanno fatto il gioco di Netanyahu; domani lo faranno rispetto ai fondamentalisti dell’Isis, che pure sono un prodotto evidente delle guerre criminali avviate dal grande impero statunitense. Occorrerebbe invece iniziare un’azione reale a favore della pace, senza le menzogne, l’ipocrisia e il cinismo che contribuiscono a tragedie sanguinose, nella regione».

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