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La “cristianizzazione forzata” delle Americhe? Alcuni chiarimenti storici

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Unione Cristiani Cattolici Razionali - pubblicato il 27/07/18

Alcuni parlano di evangelizzazione forzata delle Americhe, lo ha fatto lo storico Edmondo Lupieri nel suo Identità e conquista (Feltrinelli 2005). Si legge di “colonialismo”, “conquiste cristiane” e di “imposizione del cristianesimo”. Cosa c’è di vero?

Le cose andrebbero storicamente chiarite e lo abbiamo fatto nel nostro apposito dossier dedicato all’argomento: legare la religione cattolica al colonialismo è un’operazione controversa. Oltre al fatto che molti dei sovrani “cattolici” -quelli di Spagna, Francia e Portogallo-, lo erano in modo piuttosto nominale (mentre Inghilterra, Olanda e altri paesi avevano già aderito alla Riforma)i vertici della Chiesa erano spesso designati e governati direttamente dal re e non dai Pontefici.

I Papi, in ogni caso, già a partire dal 1435 (con la bolla “SicutDudum di Eugenio IV), condannarono la schiavitù delle popolazioni indigene sotto pena di scomunica (quil’approfondimento) e, a partire dal 1537 con la bolla “Veritas Ipsa”spazzarono via gli appetiti schiavistici sulle popolazioni del Nuovo Mondo, proclamando che “Indios veros homine esse”Una regina storicamente ritenuta un’autentica cattolica fu, invece, Isabella di Castiglia. Fin dal 1493, qualche mese dopo la scoperta dell’America, Isabella chiese a Cristoforo Colombo che gli indios fossero trattati “amorosamente” (testuali parole presenti nel documento originale del 1501), guardandoli «come gli altri abitanti del nostro reame». Lei stessa rimanderà nelle Antille, come uomini libri, gli schiavi che Colombo -da lei destituito- aveva inviato in Europa per essere venduti.

Riflettendo sull’”imposizione del cristianesimo” e sulle “conversioni forzate” operate dai colonizzatori nei confronti dei popoli indigeni, si percepisce il senso di forte ingiustizia. Che fine ha fatto la cultura dei vinti? Le cose si ridimensionano leggendo una delle principali studiose delle civiltà azteca e maya, la storica e antropologa australiana Inga Vivienne Clendinnen: la scomparsa dell’impero azteco, ha detto, le porta dispiacere più o meno come la sconfitta dei nazisti dopo la guerra mondiale. Infatti, il sistema di sterminio nazista era decisamente più soft degli innumerevoli sacrifici umani giornalieri che avvenivano a Tenochtitlán, capitale azteca. (I.V. Clendinnen, The Cost of Courage in Aztec Society: Essays on Mesoamerican Society and Culture, Cambridge University Press 2010). La Clendinnen fu tra le prime studiose del mondo Maya e Azteco e, diversi anni dopo, pubblicò anche un libro sull’olocausto nazista (considerato il libro migliore del 1999 dal New York Times). E’ difficile quindi avere una prospettiva più ampia e accurata su tale panorama.

L’antropologa australiana ha così spiegato che l’unico animale che veniva tagliato e sacrificato pubblicamente era l’essere umano, con la partecipazione attiva delle classi sociali: tutto a Tenochtitlan era costruito per celebrare l’uccisione e il sacrificio umano.«Ad insanguinare ogni giorno i gradini degli enormi templi era quest’ansia ossessionante di non lasciare finire il mondo, un’ansia che raggiungeva il suo culmine ogni cinquantadue anni, quando la minaccia delle catastrofi si faceva più concreta ed imminente» (B. Diaz del Castillo, La conquista del Messico, Longanesi 1968). Il film Apocalypto di Mel Gibson è stato accurato nel descrivere il bisecolare mondo azteco. «Le persone», ha scritto Clendinnen, «venivano coinvolte nella cura e nella preparazione delle vittime e alla dei corpi: lo smembramento, la distribuzione di testa e arti, la divisione di carne, sangue e pelle scorticata». Tutta la cultura azteca, inca e maya era costruita attorno al sacrificio umano di massa«In occasione dei riti di fertilità», ha scritto l’antropologo americano George Clapp Vaillant, «venivano uccisi donne e bambini, per assicurare la crescita delle piante. Saltuariamente si ebbero casi di cannibalismo cerimoniale. Infliggersi ferite a sangue era un altro modo di assicurare il favore divino. La popolazione faceva orribili penitenze, mutilandosi con lame o trapassandosi la lingua di spaghi cui erano annodate spine» (G.C. Vaillanti, La civiltà Azteca, Einaudi 1962, p. 184-188).

Questo è ciò che si trovarono davanti agli occhi i conquistadores. I quali riuscirono a sconfiggere gli Atzechi trovando pronta alleanza con popolazioni indigene vittime del crudele dominio azteco (i prigionieri di guerra erano i primi ad essere scuoiati vivi e sacrificati ai capricciosi dèi atzechi). L’instaurazione del cristianesimo servì anche a dotare questi uomini -totalmente sottomessi al capriccio dei loro crudeli dèi- di una morale più “umana”, allontanandoli dalla violenza richiesta dalle loro divinità. Il popolo Azteco, è stato infatti dimostrato, smise di praticare uccisioni di massa e altre violente forme autoctone di culto proprio grazie alla conversione cristiana di molti dei suoi membri (cfr. Koschorke, A History of Christianity in Asia, Africa, and Latin America 2007, pag. 31–32; McManners, Oxford Illustrated History of Christianity 1990, pag 318).

Il condottiero Hernán Cortés fu avido di denaro, di ricchezze e fu efferato nel combattere i guerrieri indigeni, ma anche disgustato dai loro sacrifici di massa, sentendosi per questo un vero liberatore. Spesso la furia della guerra prese il sopravvento ma si consideri anche che ad opporsi alla non rara violenza degli stessi conquistadores furono anche monaci e sacerdoti cattolici, come Bartolomé de Las Casas, protettore degli indios. In Paraguay, addirittura, i gesuiti armarono, educarono le popolazioni locali e respinsero i colonizzatori: l’esempio più classico è la famosa Battaglia di Mbororè. Le missioni gesuite furono oasi di paradiso rispetto al dominio atzeco e a quello degli “uomini bianchi”, in esse si stabilirono orari di lavoro ragionevoli, festività e giorni di ferie.

Di richieste ufficiali di conversioni forzate, tuttavia, non c’è traccia. Anzi, il primo Concilio d’America, quello di Lima nel 1552, stabilì: «Ordiniamo che nessuno battezzi indios di oltre 8 anni di età, senza verificare che venga volontariamente battezzato e per amore a quanto richiede e riceve, e capisca il sacramento. Non si dovranno battezzare bambini indios prima dell’età di ragione, oppure contro la volontà dei genitori o di coloro che ne hanno la cura». Occorre anche considerare quanto dice il celebre storico francese Jean Dumont, tra i massimi esperti della storia spagnola dei secoli XV e XVI: «Ce n’è abbastanza per dire che l’evangelizzazione degli indios non fu forzata e nemmeno superficiale, come si è troppo spesso scritto. Popoli indios interi e di primaria importanza abbracciarono subito autonomamente la fede cristiana […]. In Perù la cristianizzazione degli indios sarà talmente profonda che la grande rivolta contro il potere coloniale, quella di Topak Amaru alla fine del XVIII secolo, si farà in nome del cristianesimo, in un totale rovesciamento dei riferimenti religiosi degli indios. In Messico, dal 1925 al 1930, sarà il cattolicesimo indios che si opporrà con resistenza eroica all’impresa di scristianizzazione violenta dei senza Dio giacobini e bolscevichi».

Ombre e luci,  come sempre. Così è la storia degli uomini. Ma la realtà è più complessa e laddove ci si indigna (giustamente) per popoli occidentali che sottomettono le civiltà primitive, si può anche riconoscere come i valori cristiani hanno civilizzato popoli violenti, dominati da sangue e omicidi. Ancora oggi i vescovi continuano a combattere a fianco degli indios, spesso pagandone le conseguenze. E’ accaduto qualche anno fa al brasiliano mons. Pedro Casaldaliga, minacciato di morte per il suo impegno più che quarantennale in difesa dei diritti della tribù Xavante.

QUI L’ORIGINALE

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