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«Mamma, ma sei proprio sicura che mio fratello sia down?»

Gabriel Durand

Il piccolo Gabriel all'età di due anni e un paio di mesi.

Giovanni Marcotullio - Breviarium - pubblicato il 27/03/19

Una incantevole antologia del diario di una donna francese il cui quarto figlio è risultato affetto da trisomia 21 fin dalla seconda ecografia. Il turbamento e il rifiuto dell'handicap, poi l'abbraccio e il sostegno della famiglia, il necessario cammino verso l'assunzione di responsabilità e infine l'adempimento della promessa: Gabriel è anzitutto e soprattutto un figlio, amatissimo e desideratissimo. L'handicap è finito al suo posto: una presenza che impegna ma non assilla.

Una madre interpellata dall’insorgenza di una vita – che poi è il caso acuto, ma vale lo stesso per la mamma svegliata di notte dal pianto del bambino affamato – è l’icona più alta del rapporto tra grazia e libertà: dire che una donna possa, per sua natura, scegliere di non alzarsi per far poppare il figlio è un’assurdità. Così si può affermare che una donna avrebbe la libertà di abortire solo confondendo la libertà con l’arbitrio, il quale è sì libero ma pure condizionato da mille fattori – Agostino li ricapitolava in due capi: ignoranza e debolezza. Ecco, il testo che traduco di seguito è la road map di una donna che attraversa i deserti dell’ignorantia e dell’imbecillitas per approdare all’adempimento della promessa: «Ci è nato un bambino, / ci è stato dato un figlio» (Is9,6), e il suo handicap è finito «relegato in un angolo: sappiamo che c’è ma l’abbiamo rimesso al suo posto – presente ma non onnipresente». Così il libero arbitrio si libera dall’“assillo del mondo” (Mt 13, 22) e il buon seme porta frutto.


di Elsa Durand

20 marzo 2016

Ho un test di gravidanza in mano e sono incredula: nella finestra di lettura si disegna una pallida lineetta. Ho quasi 42 anni, mio marito ne ha 60, abbiamo tre figli di 11, 9 e 7 anni, alla nostra età non abbiamo assolutamente considerato di allargare la famiglia! Tutto il nostro materiale di puericultura è stato dato a destra e a manca da un pezzo, la fantastica tata che aveva tenuto gli altri tre è andata in pensione, abbiamo traslocato e non ho la minima idea di dove vadano a partorire le mammine del nostro quartiere. E poi ho preso gusto alle notti ininterrotte e ai figli relativamente autonomi. Ho ancora il mio test in mano e il mio spirito è invaso da un sentimento di panico…
Mi ci vuole qualche ora perché la sorpresa e il panico lascino posto alla gioia. Questo quarto piccolino che avevo segretamente sognato e a cui avevo finito per rinunciare si è invitato da solo! Partorire un’altra volta, allattare di nuovo, stringere ancora al mio cuore un minuscolo esserino nato dal nostro amore! E offriremo ai figli grandi la gioia di spupazzarlo. Non vedo l’ora di annunciare loro la grande notizia.

aprile 2015

Andiamo a fare la prima ecografia, quella di datazione. Sullo schermo una nocciolina con un cuore che lampeggia. È il nostro quarto figlio e sono tanto meravigliata quanto la prima volta. Va tutto bene, eppure nel fondo di me avverto una piccola inquietudine che non so definire. Mi sento vecchia, non è una cosa che si fa alla mia età, tutto qui. Caccio questi pensieri e mi concentro sulla gioia di questa gravidanza imprevista, di cui ancora non abbiamo parlato a nessuno.

10 maggio 2016

Giunge infine il giorno della prima ecografia ufficiale. So per esperienza che la piccola nocciolina avrà ceduto il posto a un bambino che si muove, con braccia e gambe. Non vedo l’ora! L’immagine appare sullo schermo: ho appena il tempo di rallegrarmi che l’ecografista annuncia «esserci una elevata translucenza nucale». È la prima misura che ha preso, in assoluto, e io sono sopraffatta. So benissimo che cosa può voler dire. Il resto dell’ecografia si svolge come in mezzo a delle nebbie: non vedo né sento più niente, sono in lacrime. Uscendo, mio marito tenta di confortarmi. Faremo degli esami supplementari, niente è sicuro, non c’è da precipitarsi. Io però penso di sapere: il mio piccolo è affetto da trisomia 21.

La mia ostetrica mi prescrive il test dei marcatori serici ricordandomi quel che so già: alcuni bambini hanno una elevata translucenza nucale e stanno benone, altri al contrario hanno una translucenza nucale nella norma e nascono portatori di trisomia. Mi aggrappo alla speranza che sia solo una coincidenza.




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23 maggio 2016

Sono le 20:30 quando l’ostetrica mi chiama, dopo la sua giornata di lavoro. I risultati sono arrivati e sono molto brutti: abbiamo un rischio di 1/10. Non può più seguirmi e mi orienta verso il servizio di diagnosi prenatale dell’ospedale più vicino. Mi butta lì che esiste un nuovo test, il test sul DNA, che permette di diagnosticare la trisomia senza amniocentesi. Ho il cuore in mille pezzi, ma so che questo figlio lo accoglieremo comunque sarà. Già lo amiamo. Allora nella lettera di raccomandazione che scrive per indirizzarci all’ospedale, la dottoressa scrive che intendiamo proseguire la gravidanza qualunque cosa accada.

27 maggio 2016

Abbiamo appuntamento al servizio diagnostico prenatale. Vorrei essere altrove. Vorrei che tutto andasse bene. Vorrei non aver paura. Vorrei che l’ostetrica che ci avrebbe accolti fosse amabile e calorosa. Ma non si ha sempre quel che si vuole, nella vita. Per fortuna, del resto, perché la dottoressa vuole che facciamo un’amioncentesi: è quanto prevede il protocollo. Non capisce perché non vogliamo, secondo lei il rischio è così minimo! E con il nostro esito infausto al test dei marcatori serici non possiamo fare il test sul DNA. Poiché non demordiamo, la dottoressa chiama il laboratorio lionese che pratica il test sul DNA. Non so che cosa si dicano, di preciso, ma alla fine la spuntiamo.

30 maggio 2016

Sono al laboratorio per effettuare il prelievo di sangue. Ci annunciano un risultato di lì a 8/10 giorni, e sono i più lunghi della mia vita. Oscillo tra speranza e abbattimento, batto tutto l’Internet alla ricerca di testimonianze, mi informo su quel che la trisomia 21 veramente è. Piango molto, anche. E dormo poco. L’attesa è dura, molto sua, e sono sfinita e piena di nausee, alla fine del terzo mese di gravidanza. Fortunatamente, mio marito è solido come una roccia, ottimista e fiducioso.

Il tempo passa. L’ostetrica chiama per dirmi che il laboratorio non ha ancora i risultati, sono pieni di lavoro. Bisogna aspettare ancora.

13 giugno 2016

È mezzogiorno quando ricevo la telefonata dell’ostetrica, che mi annuncia la telefonata del laboratorio. Non c’è bisogno di proseguire oltre, ho capito: quando i risultati sono negativi, il laboratorio non si prende la pena di chiamare, manda tutto per posta. La dottoressa mi accarezza con una parola gentile, mi dà un appuntamento con una pediatra per la settimana seguente e un’impegnativa per un’ecografia morfologica precoce da realizzare.

Sono completamente soverchiata. Nonostante i brutti risultati intermedi, volevo credere che non fosse “quello”. Stavolta però è definitivo.

Bisogna dare la notizia a tutti quelli che attendono con noi, le nostre famiglie, i nostri amici. E bisogna anche che lo annunciamo ai nostri figli, che ci sanno in attesa di un bambino ma a cui ancora non abbiamo detto niente delle difficoltà di queste ultime settimane. Non so come dirglielo, ho paura di sciogliermi in lacrime davanti a loro, di non trovare le parole, di comunicare loro il mio dolore e la mia angoscia.

E invece tutto va a meraviglia. Li riuniamo in forma un po’ solenne dopo cena e ci lanciamo, con parole semplici, cercando di spiegare meglio che possiamo quanto ci attende. Ci pongono delle domande a cui rispondiamo come possiamo. Non so più molto bene che cosa abbiamo detto quella sera, ma una cosa è sicura: l’incontro si è concluso con la loro promessa di amarlo ancora più fortemente, di aiutarlo a crescere e a progredire. Ho trovato conforto nella loro fiducia amante: se si sentono capaci loro, lo saremo anche noi.

Decidiamo tutti insieme che il bambino si chiamerà Gabriel, se è un maschietto; Gabrielle se è una femminuccia. Dargli un nome mi permette di farne il mio bambino, di non ridurlo alla sua diagnosi.

Da parte delle nostre famiglie e degli amici fioccano messaggi di sostegno, e io piango come una fontana. Piango la mia vita di prima, tranquilla e spensierata. Piango al pensiero dell’handicap, che mi terrorizza. Piango di emozione davanti ai segni d’affetto dei nostri cari.




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20 giugno 2016

Abbiamo appuntamento in ospedale, al reparto di pediatria.

Ci spiegano un po’ quello che ci attende, quanto al decorso della gravidanza, ai rischi di patologie correlate alla trisomia, alla permanenza in maternità al momento del parto e al sostegno precoce da attivare fin dalla nascita. La pediatra è energica e franca: non ci nasconde nulla delle difficoltà potenziali che ci attendono, ma ci sentiamo rassicurati e accompagnati. La dottoressa conclude l’incontro dicendo: «È fortunato, questo bambino, a nascere nella vostra famiglia». L’effetto non è immediato, ma questa semplice frase sarebbe rimasta incisa per sempre: mi avrebbe messo le ali!

Sono preoccupata per Jeanne, la nostra terzogenita. Dall’alto dei suoi sette anni e mezzo mi butta lì in una conversazione che vorrebbe averla lei, la trisomia 21, perché il piccolo non l’avesse. Allora facciamo richiesta di incontrare una psicologa in famiglia. Ci riceve tutti e cinque, poi i bambini uno a uno. Secondo lei stanno benissimo: hanno capito bene quello che abbiamo spiegato loro e si sentono liberi di parlarne e di porre questioni. Invece mi propone di rivedere me: di noi cinque, di fatto, sono io quella che soffre di più. A dire il vero ero un po’ titubante, ma focalizzarmi sui bambini mi dispensava dal guardare in faccia il mio proprio dolore. Un pezzo di me avanza, si documenta, cerca di agire per prepararsi, mette in atto tutto il possibile per far fronte a quel che ci sta capitando, mentre un altro pezzo di me si sfinisce nel lottare con tutte le sue forze contro questa realtà, perché non voglio che tocchi a noi. La psicologa dice che è normale, bisogna passare di là, come le tappe di un lutto che devono compiersi perché l’elaborazione vada a buon fine. Mi dice anche che le cose miglioreranno, che finirò per arrivare a mollare la presa e che allora comincerà realmente l’accettazione.

Ha ragione. La vedo tre volte tra fine giugno e la metà di giugno. Mi aiuta a decostruire le mie paure, vuoto il sacco con sollievo. Dopo la terza seduta mi sento meglio. Il mio ottimismo è tornato, e il mio sonno con lui. A partire da quel giorno, mai più avrei versato una lacrima. La trisomia non è più il mio nemico: l’affronteremo e saremo felici.

Passano l’estate e poi l’autunno, con le loro regolari ecografie. In agosto era sorto un sospetto di malformazione cardiaca. Gabriel cresce bene, io continuo ad avere nausee ma non vomito più. Cominciamo a preparare le cose per il suo arrivo: corredino, culla, passeggino… i bambini sono incantati a vedere che le cose diventano un po’ più concrete. Il piccolo è atteso per i primi giorni di dicembre.


ANNALISA SERENI

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2 novembre 2016

Siamo rientrati alla vigilia del matrimonio di mia sorella. Le vacanze di Ognissanti volgono al termine e ci godiamo una mattinata senza impegni dopo quei giorni di festa, gioiosi ma faticosi. Volendo fare le cose per bene, dovrei disfare i bagagli e far partire un paio di lavatrici, ma non ne ho il coraggio. Abbiamo appuntamento alle 11 con l’anestesista, bisogna che mi alzi. Mi stiracchio per dar sollievo alla schiena e sento un sordo “pop” accompagnato da una sensazione bizzarra. Si stanno rompendo le acque?

Decidiamo di andare a fare un controllo in maternità prima dell’appuntamento con l’anestesista. Falso allarme. Il monitoraggio di controllo è assolutamente piatto, non c’è in vista la minima contrazione e mi assicurano che non è cosa di oggi. Meno male: la valigia del piccolo è pronta, ma la mia assolutamente no. E poi ho troppe cose da fare a casa, quando ho appena passato la boa delle 36 settimane di gravidanza: è troppo presto. Vedo rapidamente l’anestesista e dopo pranzo rientriamo.

È verso le 12, mentre pranziamo con i bambini, che compaiono le prime contrazioni. Rapidamente esse si fanno sufficientemente ravvicinate e intense da permettermi di cronometrarle. Non c’è dubbio: partorisco oggi. Filo a mettere ordine nella mia valigia del matrimonio: la trousse da bagno è pronta, tolgo quel che non mi serve e aggiungo alla bell’e meglio quel che servirà per un soggiorno in maternità che si annuncia più lungo del solito. Cerco tra una contrazione e l’altra di trovare, saltellando su un piede, una baby sitter disponibile per badare ai nostri grandi.

Partiamo verso le 13:30. L’ora è buona per evitare gli imbottigliamenti tra casa e ospedale. Casca a fagiolo, perché ho contrazioni ogni due minuti – cosa che non commuove il personale del reparto di maternità al nostro arrivo: mi chiedono di pazientare in sala d’attesa.

Vengo ammessa in sala di controllo alle 14:15 e spedita immediatamente in sala parto: Gabriel getta il suo primo gridolino alle 14:33.

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È un colpo di fulmine. Immediato e definitivo. È così piccolo, così perfetto, così bello… Conosco la sua fragilità, so della presenza del cromosoma-sorpresa, ma tutto ciò sparisce davanti a questo tesserino meraviglioso. Non è trisomico, è Gabriel, il nostro ometto tanto amato, tanto atteso. Che fortuna abbiamo avuto, di ricevere presto nella gravidanza la diagnosi: lo choc è passato da parecchio e niente può incrinare la gioia e la magia di questa nascita.

Gabriel è un piccolo campione: trionfa nelle sue due prime sfide. È poco ipotonico e poppa con foga. Nato a un mese dal termine, misura 50 centimetri e pesa 3,650 kg. Un’ecografia conferma che il suo cuore funziona perfettamente, le sue analisi sanguigne sono corrette, va tutto benissimo. Solo i test auditivi non dànno risultati, ma un’amica infermiera mi rassicura: è molto frequente. Effettivamente, nuovi test ripetuti poche settimane dopo mostrano che ci sente normalmente.

Rientriamo a casa il 7 novembre, sotto la neve.

È l’inizio di una nuova vita, ritmata dalle poppate, dalle visite, dagli appuntamenti medici e amministrativi. Bisogna mettere in pista rapidamente il dossier MDPH per il riconoscimento dell’handicap e per la presa in carico al CAMSP, che deve cominciare prima possibile. Approfitto del mio congedo di maternità per cercare di regolare più cose che posso, perché ad aprile riprendo a lavorare e allora mi sarà più difficile liberarmi. Gli appuntamenti sono ovviamente più numerosi di quelli che si fanno per un bambino ordinario, ma incontriamo persone di buona volontà che cadono presto vittime del fascino del nostro ometto.

Di fatto, la vita è incredibilmente normale, banale, semplice.

Non so che cosa mi aspettassi, di preciso, ma non è assolutamente la rivoluzione che mi faceva così paura al momento della diagnosi. Quando Gabriel ha avuto otto giorni mi ricordo di essermi detta: «Se la vita assomiglia a questi otto giorni, andrà tutto bene». Quando ha avuto un mese ho pensato: «Se la vita assomiglia a questo primo mese, allora non c’è da preoccuparsi». Lo stesso il mese dopo e quello successivo… Un giorno Clémence, di 10 anni, mi butta là: «Sai mamma, Gabriel di fatto è come un bambino normale!». E io rido: sì, Gabriel è un bambino normale! Qualche mese più tardi è Jeanne, ormai 8 anni, che irrompe correndo in cucina mentre preparo la cena: «Di’ un po’, mamma, tu sei veramente sicura che Gabriel abbia la trisomia?». E quando le rispondo di sì: «Ah, vabbe’», e torna di corsa alle sue cose.

Alla psicologa del CAMSP che ci riceve spiego che per tutta la mia gravidanza la trisomia è stata come un fantasma tra il mio piccolo e me: non potevo pensare a lui senza che quella s’imponesse al mio spirito. Avevo imparato a non averne più (troppa) paura, ma si prendeva comunque un posto folle. Dopo che Gabriel è nato, abbiamo relegato la trisomia in un angolo. Sappiamo che è lì, ma l’abbiamo rimessa al suo giusto posto: presente ma non onnipresente.

Oggi Gabriel ha 28 mesi. È un bambino magnifico, tutto biondo e con grandi occhi blu. È l’idolo dei suoi fratelli e delle sue due sorelle, e li ricambia bene. Progredisce coi suoi ritmi, un po’ più lenti di quelli di un bambino ordinario, però ogni nuova acquisizione è una vittoria commisurata allo sforzo che ha comportato. Da diversi mesi cammina, dice qualche parola, comincia a scrivere. Distribuisce generosamente baci e fa il solletico. Mangia da solo e poppa ancora al seno, si è fatto degli amichetti con la tata e afferma il proprio carattere. Abbiamo intrapreso i passi per farlo entrare a scuola il prossimo settembre e stentiamo a realizzare quanto veloce passi il tempo.

E siamo felici.

A giugno 2016 credevo che la mia vita di prima, rilassata e spensierata, fosse perduta per sempre. Oggi posso affermare che la nostra vita è senza dubbio un po’ più rock n’ roll, ma che la felicità è commensurata al posto che le si prepara.

Tanta gente mi ha detto che sono stata coraggiosa. La verità è che amare Gabriel e lasciarmi amare da lui non mi richiede alcuna fatica. È estremamente semplice…

Elsa e Olivier*

*: Genitori di Thibault (14 anni), Clémence (12 anni), Jeanne (10 anni) e Gabriel (27 mesi). Potete seguire le avventure di Gabriel e della sua famiglia su Instagram.

Link all’articolo originale pubblicato su Breviarium.

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