Eugenio Corti è stato uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano, tuttora sconosciuto a molti nel nostro paese e ignorato dalle antologie scolastiche. Questo silenzio assordante sulla sua opera resta fonte di grande amarezza per i suoi lettori, che hanno trovato nelle pagine di questo brianzolo dagli occhi penetranti un padre capace di illuminare il quotidiano della vita così come i drammi della storia moderna e contemporanea. Basti sapere che il suo romanzo più famoso, Il cavallo rosso, conta ventinove edizioni ed è stato tradotto in otto lingue (tra cui il giapponese). Il fio da pagare, vale la pena dirlo senza giri di parole, è il suo essere una voce cattolica autentica, cioè un uomo con gli occhi spalancati sulla terra degli uomini e l’orecchio teso alla Buona Novella di Gesù.
Leggi anche:
Eugenio Corti, testimone prezioso
Venga il Tuo regno
Quando a 20 anni scelse di andare a combattere in Russia, era l’anno 1941, aveva le idee chiare su cosa lo attendeva e cosa si aspettasse:
Avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un’idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio, operato dai comunisti. Volevo assolutamente conoscere la realtà del comunismo; per questo pregavo Dio di non farmi perdere quell’esperienza, che ritenevo sarebbe stata per me fondamentale: in questo non sbagliavo. (da Eugenio Corti)
Visse sulla sua pelle quell’evento tragico che fu la ritirata di Russia (100 mila soldati italiani rimasero in quell’inferno di ghiaccio e guerra, raccontati da Corti nel libro I più non ritornano), ne uscì vivo ma in uno dei momenti più drammatici della ritirata formulò il voto che poi adempì: promise alla Madonna che se fosse tornato a casa avrebbe trascorso il resto della vita a compiere quella frase del Padre Nostro che dice “venga il Tuo regno”. Ricordo ancora la voce commossa con cui raccontava questa promessa a noi universitari, durante uno dei tanti incontri che era sempre disponibile a fare. È mancato nel 2014, gli sopravvive la moglie Vanda con cui si sposò nel 1951 ad Assisi, una funzione celebrata da Don Carlo Gnocchi.
Leggi anche:
Gino Bartali e Adriana Bani, il matrimonio è una pedalata sulla strada scelta da Dio
Ho bisogno di ricevere, più che di donare
All’indomani della guerra, ancora in piena giovinezza, s’innamorò della donna che gli sarebbe rimasta a fianco fino all’ultimo. Un documento pubblicato da Federico De Palo sul sito dell‘Associazione Eugenio Corti ci permette di toccare la sfera più intima di questo autore. Si tratta di una lettera inedita che la moglie Vanda ha condiviso e che Eugenio le scrisse prima che fossero fidanzati nel 1947. Eccola, preceduta e seguita dalle parole (in corsivo) con cui la signora Vanda ha presentato questo scritto:
Capitava spesso, specialmente in giornate d’esami per tutte le facoltà, di incontrare studenti mai visti prima e che difficilmente si sarebbero incontrati ancora. Un giovane mi venne incontro mentre ero in attesa di sostenere un esame. Fu allegro, ironico, divertente, parlò molto. Mi attese e ci avviammo insieme all’uscita. Non fu un incontro come tanti altri perché dopo qualche giorno mi giunse questa lettera. Besana, sera del 15 Luglio 1947 Può essere che tu abbia piacere che io ti scriva, e ti dica il perché della mia insistenza, della mia telefonata, della mia inutile visita. Sono venuto a cercarti in Quadronno, te lo avranno detto, c’era anche tua sorella, e quanto io ho raccontato loro di prestiti di libri e simili, tu lo sai bene, è una qualsiasi fandonia. Io volevo semplicemente vederti. Quanto le mie sorelle m’hanno detto, m’ha fatto conoscere abbastanza di te; non ignoro che sei stata e, con tutta probabilità, sei ancora oggi fidanzata. Io volevo vederti e stringere amicizia con te. Penso che tu, che se non m’inganno devi possedere una femminilità profonda, devi aver provato, più d’una volta, il desiderio di accostarti alla virilità. Ciò è giusto ed è anche un grande dono e una benedizione del Signore. Lo stesso è, ed è stato, per me: io sento la necessità di un po’ di femminilità che mi accompagni. Nella mia solitudine, quando ho visto te, mi è sembrato che la tua bellezza esteriore non fosse, come molte, soltanto esteriore, ma fosse lo specchio di quella dell’anima. Per questo ho desiderato conoscerti e divenirti amico. Tu hai accennato a una tua grande sofferenza. Io quella sofferenza l’avevo letta nei tuoi occhi fermi e sinceri: questo è stato uno dei più forti motivi che mi ha spinto a te. Anch’io ho molto sofferto. Quello che io sono tu lo potrai leggere in un libro che ho pubblicato in questi giorni e che si trova in ogni libreria: I più non ritornano. Te lo donerei io, se potessi rivederti. Sono altro ancora, di miseria e anche di male, purtroppo, che in quel libro non c’è perché è venuto dopo. Io (spero che non ci sia superbia in questo mio dire) ho molto donato e molto mi par di donare. È bello sopra ogni cosa, ma non si può continuare a donare senza ricevere. E, senza un po’ di femminilità che mi accompagni, sento di intristire. Mi auguro di tutto cuore di poterti rivedere perché molto male mi verrebbe dal non poterti più incontrare. Bene, ho detto quanto intendevo dirti. Ti saluto e ti chiedo scusa per la noia che ti ho data. Eugenio Corti La lettera mi giunse quando stavo partendo per raggiungere i miei familiari in Umbria. Avevo pensieri tristissimi. Non risposi. Lo rividi in ottobre. Eugenio era venuto a cercarmi in università: «ti ho portato il mio libro – disse – lo leggerai?». Da quel giorno finimmo con l’incontrarci quasi regolarmente.
Un incontro, un saluto, l’intuizione di un’ipotesi di vita insieme, più piena, viva, profonda. È la trama di ciò che accadde a Dante e Beatrice, è la trama dell’innamoramento vissuto come premessa e promessa di compimento.
Leggi anche:
Caffarra. Il matrimonio è un vero dramma: teatro della lotta, il nostro cuore
Colpisce che, pur scrivendo a una ragazza ancora pressoché sconosciuta, il giovane Corti si permetta un’intimità così coraggiosa, le dice senza mezzi termini: sono manchevole di qualcosa che la tua bellezza promette di colmare. Potrebbe addirittura scandalizzare certi nostri contemporanei l’esplicito riferimento al virile e al femminile, come elementi contrapposti … ma perché complementari. “Senza un po’ di femminilità che mi accompagni, sento di intristire”: la contrapposizione dei sessi che ha procurato così tante sterili discussioni negli ultimi decenni è in queste parole sciolta in compagnia. Quella frase quasi buttata lì con semplicità contiene un mistero umile del matrimonio, intenso da meditare: «non si può continuare a donare senza ricevere».
Leggi anche:
Chesterton alla moglie: m’inginocchierò sempre di fronte alle tue ferite (VIDEO)
Il guasto dell’umano e la primavera dell’amore
Colpisce molto, nella lettera, quell’ammissione così sincera che molti eviteremmo di scrivere come primo approccio a qualcuno che ci piace: “Sono altro ancora, di miseria e anche di male“. È forse una delle caratteristiche che più schiette dell’uomo che vive in pienezza di gioia il messaggio cristiano, partire dalla dottrina positiva del peccato originale. La persona, nella sua solitudine, non solo è manchevole di qualcosa per la propria felicità, ma è anche incapace di perdono al male. L’amore è l’ipotesi, se vogliamo umilissima, di accettare che l’io per essere davvero se stesso la smetta di guardarsi allo specchio; da fuori, dalla voce di un altro, deve arrivare la carezza del bene e anche la mano che pulisce le macchie o che accompagna alla fonte dove lavarsi.
Leggi anche:
Vivere con Vittorio Messori, ma tutta per Cristo. Parla la moglie, Rosanna Brichetti
Non si può solo dare, per essere; per essere occorre fare esperienza di cosa sia un dono, di ricevere. Il protagonismo, l’attivismo, l’esercizio delle proprie capacità diventano facilmente un regno di dittatura assoluta se, contemporaneamente, l’io smette di sentirsi manchevole, monco, ovvero continuamente bisognoso di ipotesi, risposte, proposte che da solo non sa produrre. La bocca produce la nostra voce, ma è anche ciò che accoglie il nutrimento che da solo il corpo non produce: ecco cosa è un sano equilibrio umano. Il matrimonio – ma allo stesso modo ogni genere di vocazione, anche quella claustrale – mette al centro la relazione con l’altro togliendo il singolo dal buco nero dell’egocentrismo; ed è l’unica via d’uscita dalla pazzia maniacale di chi presume di voler sbrogliare da solo il dramma di vivere.
Eugenio e Vanda Corti hanno vissuto l’intimità della loro relazione senza clamore. Un bellissimo servizio fotografico curato da Roberto Nistrice li mostra l’uno accanto all’altra in età avanzata. Uno scatto in particolare, li inquadra con due sguardi che divergono, lei fissa qualcosa in alto e lui invece guarda più verso il basso.