Lettera alla giovane ucraina che nella notte tra domenica e lunedì ha partorito suo figlio in una cascina abbandonata a due passi dal boschetto della droga di Rogoredo a Milano.
Cara Elnara,
anche io ci passo da Rogoredo ogni tanto, sul treno però, che rallenta e non si ferma: e si vedono soltanto i palazzoni alti di Sky, pare di stare a Hollywood. Non sapevo che a pochi metri da lì ci fosse un famigerato boschetto della droga, quello dove hai partorito. Ho letto di genitori che ci si sono inoltrati per recuperare figli anche minorenni, e hanno visto occhi vuoti, vomito, braccia bucate, corpi in mezzo a siringhe, e peggio. Un genitore affronta l’impossibile per strappare alla morte il sangue del suo sangue. Di te diranno il contrario, che sei una madre pessima che si drogava e ha trascinato all’inferno la sua creatura. Oh certo, poi salteranno fuori gli ipocriti che non diranno molto sulla tua tossicodipendenza – sono scelte, no? – ma chiederanno perché non hai abortito. Già, perché? Sola, evidentemente in difficoltà, straniera. Questo aborto ancora così troppo poco accessibile per chi ha bisogno! Vedrai che lo diranno, col ditino alzato.
Siamo come Rogoredo, noi: una facciata lucida da promuovere sugli schermi e un intimo molto opaco e marcio da far finta di non vedere. Credo che tu lo sappia già, anche se hai solo 28 anni. I figli si fanno solo quando sono desiderati, si pianificano anzi. Se sono difettosi si scartano. Ma dietro questa facciata, quanto dolore c’è. Tu e tuo figlio sballate assiomi costruiti a tavolino da illustri benpensanti moderni. Tu hai una dipendenza e sei diventata madre, di quante dipendenze più subdole vorrebbero riempirci la testa per farci diventare madri a comando oggi? Credimi, non sei peggiore. Hai bisogno di aiuto per sostenere la scelta più sensata che potevi fare.
Nella cascina della grande metropoli
Non so cosa ti abbia portato dall’Ucraina a Milano, se mi assomigli capisco che tu possa aver avuto dei sogni che la grande città prometteva di realizzare. Anche a me Milano piace perché il suo solo aspetto mi riempie di promesse e possibilità. Poi quando scendo dal treno, mi sento sola e vedo un mucchio di gente che sa dove andare e ci va a passo spedito, vestita fashion. Allora ho l’impressione di essere al centro di qualcosa di spettacolare ma che non mi contempla, c’è un fremito che mi lascia in disparte. Tu amici nei hai incontrati? O avevano solo l’apparenza benevola e poi ti hanno tradita? I saggi dicono che è meglio non fidarsi, ma quando sei davvero solo è umano, umanissimo farlo.
C’è un vuoto che non so riempire: un po’ ti immagino che arrivi nella grande metropoli, ma poi s’introduce l’inferno della droga e poi la gravidanza. E lì ti lascio sola, nel pieno di una storia che non conosco: vuoto e inferno deve essere stato, e quando c’è il buio le presenze attorno spariscono alla vista – magari anche quelle a cui di sfuggita ci si poteva aggrappare. Ho spulciato tutti i quotidiani per racimolare informazioni in più su di te, e un po’ di morbosità – lo ammetto – c’era. Ma c’era pure un desiderio sincero di darti un volto, di essere sicura che tu e tuo figlio foste in carne e ossa. Credo tu abbia trovato la via d’uscita più clamorosa e impegnativa per sgusciare fuori dal tuo inferno, mettere al mondo un figlio. Ed è il motivo per cui ho scelto di mettere in piedi questa abusata trovata letteraria di scriverti una lettera. Ma sul serio avrei voglia di incontrarti, non so cosa posso offrirti; so bene cosa tu puoi offrire a me: speranza. Altra parola abusata.