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Quel bugiardo di un neurone

NEUROLOGY,NEURONS

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 23/12/19

A colloquio con lo psichiatra e psicoanalista Walter Procaccio

di Silvia Guidi

L’epoca attuale conosce un sempre maggiore sospetto nei confronti del linguaggio. Fakenews, vecchie e nuove imposture, proliferazione incontrollata di simulacri minano alla radice la fiducia nella parola. Ma se la lingua può mentire, almeno il corpo (con la sua comunicazione immediata) non ci inganna. A mettere in discussione quest’idea è il titolo curioso, Il neurone bugiardo (Napoli, Cronopio, 2019, pagine 196, euro 14), del libro di Walter Procaccio, psichiatra e psicoanalista.

A cosa si deve questo titolo?

Inizialmente pensavo di dedicare questo volume all’avverbio “quasi”. È una parola che va maneggiata con umiltà e dignità; è molto presente nel volume oltre che nel sottotitolo. Il titolo definitivo invece lo devo a un paziente simpaticissimo che anni fa nella comunità terapeutica dove lavoro mi chiese a bruciapelo in marchigiano stretto: «ma tu li curi i neuroni bugiardi?». L’ho trovata una domanda piena di poesia. Ci ho messo un po’ ma alla fine con questo volume gli rispondo. Bugiardo, il neurone, davvero non può essere perché per essere bugiardi occorre essere liberi di mentire o dire il vero e il neurone come tutte le cose della natura fa solo cose che non può non fare. Diciamo che il neurone può risultare inaffidabile alla mia causa, può dispiacermi, ma lo fa senza cattiveria. È la sua natura.

Oltre alla provocazione del suo paziente, che cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?

Un’esigenza personale. La mattina pratico la psicofarmacologia in strutture psichiatriche riabilitative e il pomeriggio la psicoanalisi individuale. Tentare di pacificare il rapporto fra il sapere dei neuroni e quello delle parole è stata un’urgenza per risolvere il cambio di identità alla pausa pranzo.

Psicoanalisi e psicofarmacologia sono davvero così in contrasto?

Esiste una disputa sfinente, venata di motivazioni commerciali e di primogeniture permalose. Ma c’è un fenomeno che merita attenzione: il tentativo della psicoanalisi di farsi certificare dalle neuroscienze. Accade spesso che ai convegni di psicoanalisi l’ospite d’onore sia un neuroscienziato. Non mi risulta invece il contrario. Questo volume tenta di dire che psicoanalisi e neuroscienze sono due saperi del tutto incomparabili, che condividono solo una breve e urgentissima linea di contatto: laddove occorra parlare di un caso clinico gli attori sono costretti a confrontarsi.

In che senso questi due saperi sono incomparabili?

Se vado da un medico perché “ho male qui”, chiedo al medico di fare diagnosi. Cosa significa fare diagnosi? Significa prendere il “dolore qui” per scegliere la cura migliore. La direzione è dunque dal particolare del mio “dolore qui” all’universale di tutti i “dolori qui” uguali ai miei. Vedere cosa del mio caso è “tipico”. La psicoanalisi va in direzione opposta. Quando il paziente entra nella stanza di analisi e dice “ho male qui”, ma anche quando dice banalmente solo “buongiorno”, lo psicoanalista deve frenare la sua naturale tendenza ad assimilare il testo a un caso generale, “tipico”, per vedere tutto quello che in quel dolore, o in quel buongiorno, c’è di “unico”. Se lo psicoanalista guarda al caso generale si perde tutto quello che dello specifico c’è di impercettibile, inedito, inatteso, improbabile, irripetibile: l’inconscio.

Tipico e Unico: un altro modo di contrapporre universale e particolare?

La posta in gioco è capire di che pasta è fatta quella mancata coincidenza del testo di un uomo con i suoi neuroni. Nell’effetto placebo si mostra meravigliosamente questa eccedenza. Il verbo più attrezzato a dire questo è “trascendere”. Occorre saccheggiare ogni possibile senso di questo verbo. Anche dai poeti se necessario. L’inconscio disturba il neuroscienziato che se ne deve proteggere, altrimenti non capisce. La tipizzazione di ogni scienza disturba lo psicoanalista che se ne deve proteggere, altrimenti non vede nulla.

Ma, nell’epoca del neuroimaging funzionale, non basta “fotografare” quello che avviene nel cervello per comprendere il funzionamento della psiche?

La macchina fotografa tutto quel che c’è, lo fa sempre meglio e noi siamo grati per questo. Ma poi l’uomo parla e una “fotografia” del cervello non coincide con il racconto del paziente. Non perché le macchine non sono ancora sufficientemente potenti ma perché parlare significa trascendere. Foto di neuroni e parole sono due tipologie di cose diverse. Per sapere come sta una persona l’atto egemone resta quello di chiederglielo. Poi viene il resto.

Nel libro c’è l’invito a considerare il soggetto come processo, passando da una logica del sostantivo a una logica del participio presente. Procedimento in apparenza inverso a quello proposto dal Papa, che ha suggerito di passare dalla cultura dell’aggettivo a quella del sostantivo.

La grammatica è zeppa di filosofia. Secondo Wittgenstein «in una piccola goccia di grammatica si condensa un’intera nube di filosofia». Cercare nelle pieghe della grammatica noccioli di verità è una pratica sapiente. Il passaggio da una filosofia dell’aggettivo a quella del nome, è un monito di umiltà anche per lo scienziato. Basta che un microscopio o un telescopio aumentino di un grado la loro potenza che l’oggetto diventa più nitido e cento aggettivi non servono più. Dovrebbe bastare questo per renderci tutti più umili. Nel volume mi permetto un paio di giochi grammaticali scimmiottando Rodari. Il primo è quello di abolire i nomi e sostituirli con i soli participi presenti: «Carlo? Carleggiante. Sedia? Sedieggiante». È un modo per non dimenticare che siamo processi in atto. Anche una montagna millenaria lo è. Allora la montagna non è, ma “montagneggia”. Il secondo gioco è l’abolizione del singolare della parola “causa”. I perché di ogni evento, di ogni atto sono letteralmente infiniti. Poi l’uomo limitato ne vede (e ne tollera) solo una manciata. Meglio uno solo. La vita si fa semplice, ma ingenua e minacciosa. Se dovessi individuare il nemico contro il quale mi batto in questo volume lo troverei nell’ingenuità pigra.

Qui l’originale

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