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Si suicida un’altra infermiera, è la terza: quali ferite infligge all’anima il Covid-19?

NURSE, HOSPITAL, TIRED

Syda Productions | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 30/04/20

Abitavano a Milano, Monza e Jesolo e lavoravano nei reparti Covid dove si muore di più. Non sappiamo, per ciascuna di loro, cosa abbia motivato il gesto estremo, ma è urgente chiedersi quale fragilità profonda - di tutti noi - stia evidenziando e colpendo il coronavirus.

Chi salva vite può togliersi la vita? Le vittime della pandemia sono solo quelle contagiate e uccise dal Covid-19?

Credo che questo sia ancora il tempo di una cronaca a occhi ben aperti, come Ungaretti che scriveva dal fronte segnando in cima a ogni poesia la data e il luogo. Il nostro vissuto quotidiano è ancora un diario di guerra; quanto a me, ho domande poco risolte da annotarci sopra.


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Una delle tante sintesi astratte su cui ci siamo adagiati fin dai primi giorni di pandemia mostra delle crepe, o meglio, non è mai esistita nei termini marmorei dei giornali: gli eroi degli ospedali. Infermieri, medici e tutti i membri del personale chiamato a un impegno improbo dall’emergenza Covid-19 hanno in gran parte e da subito rifiutato l’etichetta di eroi. Non che sia sbagliato riconoscere nella loro dedizione e nei rischi corsi la cifra dell’eroismo; eppure qualcosa sfugge. La cronaca, dunque, ci porta a guardare senza veloci approssimazioni il volto di chi abita le corsie degli ospedali in tempo di pandemia. La cronaca ci mette al corrente che un’infermiera si è suicidata a Milano due giorni fa, ed è la terza in poco più di un mese.

È un dato da segnare nel nostro diario, senza volerlo incasellare in una rigida categoria tipo «vittime da stress per il coronavirus»; la verità è che non sappiamo, per ciascuna di loro, cosa abbia davvero motivato il gesto estremo. Gli elementi che ne accomunano le storie sono sufficienti per porre un interrogativo: quanto profondamente ci sta segnando il Covid-19, al di là delle statistiche sui contagiati? Quanto a fondo sta mettendo alla prova chi è nella prima linea dei reparti dove si muore?

Erano tre donne giovani, lavoravano in Lombardia e Veneto (tra le regioni in cui l’impatto del coronavirus è stato più tragico) ed erano in servizio accanto ai malati più gravi. Una vocazione sincera alla cura, scritta nella loro stessa femminilità e poi nel mestiere scelto, ha fatto i conti con ombre personali nel fitto del cui mistero non possiamo infilarci. Ricordare le loro storie non è sciogliere quel mistero, ma guardare la trincea che già s’intravede e che non si esaurirà nella fase 2, o nella 3: quella delle ferite inflitte alla coscienza dall’esperienza della pandemia. So che sarebbe stato più facile scrivere «l’impatto psicologico», ma non è adeguato. Quelle voragini che si aprono dentro gli esseri viventi in questo tempo drammatico non basta etichettarle come «stress».

Distrutte

Mary Monteleone è morta nella notte tra lunedì 27 e martedì 28 aprile, è stata trovata impiccata in casa da uno dei due figli adolescenti. Lavorava al reparto di pneumologia dell’Ospedale San Carlo di Milano:

Nelle ultime settimane si occupava principalmente dei pazienti affetti da Coronavirus, in base ad una riorganizzazione del personale operata dalla direzione. Spostata in pneumologia, è rimasta in servizio sino all’ultimo giorno che ha vissuto “in un reparto di quelli brutti, dove molti vanno a morire”, ha riferito un collega. (da Notizie.it)

Oltre questi sintetici dati non si va, cioè si possono fare ipotesi e si possono azzardare attenuanti per il gesto estremo. Fuor di dubbio è che le vittime siano, almeno, tre e non una: il trauma dei figli nel fare i conti con una mamma che si è uccisa tra le pareti domestiche sarà profondissimo. Cosa avrà potuto essere più forte nella spinta negativa di quel legame materno coi propri ragazzi? Dall’ospedale arrivano parole di dolore e i suoi colleghi confessano tutta la fatica emotiva a cui sono sottoposti:

Diversi di loro hanno anche ammesso che nell’ospedale serpeggia una certa preoccupazione per i possibili esiti della graduale riapertura delle attività in Lombardia, come previsto a partire dalla prossima settimana. Al fine di fornire un supporto emotivo a chi si trova in prima linea nella battaglia contro il Coronavirus, l’ASST Santi Paolo e Carlo ha già da tempo inaugurato un servizio particolare: una stanza dove potersi rilassare con musica di sottofondo e luci soffuse, nonché, se richiesta, la presenza di uno psicologo. (da TPI)

Quest’ultima nota mi ha suscitato un sorriso amaro, mi chiedo: ma non sarebbe più opportuno ricordare che senso ha la cappella o la chiesetta che c’è negli ospedali? Più che il bisogno di rilassarsi o di farsi psicanalizzare c’è l’urgenza di mettere in mano tutto il proprio grumo di fragilità e sofferenza a Qualcuno; non c’è bisogno di isolarsi ma di mettersi in rapporto, ponendo al centro la parte più ferita di tutte – la coscienza appunto (come sintesi compiuta di mente e cuore).

Un mese prima di Mary, il 24 marzo per essere precisi, l’infermiera Daniela Trezzi di 34 anni che lavorava nel reparto di Terapia intensiva all’ospedale San Gerardo di Monza si è tolta la vita proprio dentro l’ospedale. Il suo caso è quello che ha dato più materiale di discussione ai giornalisti. Sembrava infatti, ma poi è stato definitivamente smentito, che fosse positiva al Covid-19 e temesse di avere contagiato altri.

Il 10 marzo Daniela va in malattia, chiede una proroga fino al 15, poi fino al 19 e ancora fino al 22. Ieri è rientrata a lavoro ma, come ci spiegano fonti qualificate, si reca direttamente nei bagni del reparto di pediatria dell’ospedale, all’undicesimo piano. É lì che si toglie la vita. In quel posto freddo, vuoto, in un’area che è in fase di trasloco. Perché il nosocomio in cui Daniela lavorava in questi giorni ha dovuto riorganizzarsi: da 90 pazienti ad oltre 500 persone, tutti con il Coronavirus. (da Open)

Il luogo di morte – il reparto dei bambini, in alto, vuoto di presenze – parla di una solitudine che diventa disperata, e grida il bisogno di sentirsi figli e non supereroi. La vocazione della cura è preziosa, diventa drammatica quando i pazienti muoiono nonostante la dedizione e il sudore e la tenacia di chi li assiste. A chi si mette in mano questo apparente vuoto di senso?

Appena cinque giorni prima di Daniela, in Veneto era stato ritrovatonella foce del Piave il corpo di un’infermiera che lavorava nella Terapia Intensiva dell’ospedale di Jesolo:

[…] un’infermiera di 49 anni di Jesolo, gettandosi nel fiume e il suo corpo è stato ritrovato oggi nella foce del Piave, a Cortellazzo dopo la segnalazione di un pescatore. La donna lavorava sin dall’inizio dell’emergenza in un reparto dedicato solo ai contagiati di coronavirus dopo che l’ospedale era stato convertito in un presidio Covid-19 del Veneto. […] Dal 2016 era ritornata a prestare servizio all’ospedale del litorale, nella Medicina Fisica e Riabilitativa, e pochi giorni fa si era offerta di lavorare nel nuovo reparto malattie infettive dove aveva collaborato all’allestimento e all’avvio delle attività. Nell’unità operativa in cui attualmente sono ricoverati 25 pazienti coronavirus positivi S.L. aveva partecipato con i colleghi alla formazione per la gestione in sicurezza dei pazienti e aveva già svolto tre turni lavorativi. (da Repubblica)

Il virus, così come ogni frammento di esistente che contraddice la nostra sete di bene e giustizia ed eternità, si è infilato così a fondo in un’anima da sconfiggere tutta quell’intraprendenza buona e volenterosa che aveva mosso questa donna a essere lì, dove l’emergenza chiamava senza risparmio di forze e capacità.

Una battaglia spirituale

Il suicidio è una resa, dichiarata da una voce umana, al progetto di vita voluto da Dio. Una sconfitta di proporzioni gigantesche in termini umani e divini. Il dolore vivamente partecipato che ci fa abbracciare le anime di queste tre donne senza censurare nulla del peccato radicalmente grave che hanno commesso, ci muove anche a condividere – da compagni umani – il peso che, per quanto misterioso, gravava su di loro. Quel peso è un nemico che abita in mezzo a noi e crescerà in forza distruttiva. Si tenterà di ridurlo a etichette come «stress post traumatico», «crollo psicologico da coronavirus» e simili; si tenterà di ridurne anche la cause alla stanchezza, alla sofferenza esperita, alle condizioni di lavoro difficili.

Finché non si avrà il coraggio di dare un nome alla vera protagonista di questo tormento che, in misure e proporzioni diverse, stiamo tutti vivendo, saremo di fatto disarmati di fronte al nemico. E allora torno alla parola di partenza: coscienza. L’abbiamo dimenticata per strada da molto tempo, e ci siamo frammentati in un mucchio di esigenze parziali: il benessere fisico, l’equilibrio psichico, la soddisfazione emotiva. Abbiamo moltiplicato i fronti e suddiviso l’esercito, sguarnendo il centro del conflitto: l’anima. Tocca ricompattarlo alla svelta, perché per quanto il nemico ora ci appaia più terribile e gigante è sempre quello che in mille forme ci accompagna dalla notte dei tempi: la tentazione di cedere al buio della negazione. Che è l’esito estremo e tragico della concretissima e quotidiana contesa tra il bene e il male.

La via su cui incamminarsi a passo spedito è quella di ricordarci i termini essenziali della questione: la vita terrena è una contesa di cui è protagonista la nostra coscienza libera, è dalla mattina alla sera (anche nei giorni di calma piatta) una battaglia spirituale in cui abbiamo un alleato incarnato da riconoscere e a cui affidarci. Diversamente, ci perderemo nei rivoli perdenti del nichilismo, dello psicologismo, dell’ignavia, della cinica cattiveria.

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