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Dal braccio della morte alla libertà: scarcerato dopo 43 anni un disabile mentale

JOHNNY LEE GATES

Ledger Enquirer

Annalisa Teggi - pubblicato il 26/05/20

Un caso di cronaca controverso, che suscita la pietà degli innocentisti pronti a condannare il sistema iniquo della giustizia americana e l'ira degli accusatori desiderosi di giustizia per una ragazzina stuprata e uccisa.

È rimasto in prigione dall’anno della mia nascita, questo dettaglio mi ha portata ad approfondire il caso di Johnny Lee Gates.

Quest’uomo è stato condannato nel 1977, prima alla pena di morte poi all’ergastolo (in considerazione della sua disabilità mentale), ed è stato scarcerato in questi giorni grazie al cosiddetto «patteggiamento Alford» (a breve spiegherò di cosa si tratta). Quella che io chiamo vita, i miei 43 anni di crescita, per lui sono stati un tempo di reclusione. Una giusta pena? Un grave caso di discriminazione? Confesso che mi sono avvicinata a questa storia con la presuzione di voler dare risposta sicura a queste domande. In fondo, volenti o nolenti, per noi giustizia significa decidere se uno è innocente o colpevole.


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Allora ho cominciato mettendo i dati oggettivi di questa vicenda sul tavolo, per poi trovarmi senza una soluzione tra le mani, ma con una domanda ancora più forte su una giustizia che sappia tenere legato ciò che umanamente è impossibile: l’anima di una vittima violentata e uccisa a soli 19 anni da mano umana e l’anima di uomo forse ingiustamente incriminato e certamente discriminato. Ecco, il tribunale è il luogo in cui si dibatte e si emettono verdetti, ma non è il luogo dove l’uomo trova quella verità che cura le ferite del male.

Ma partiamo dalla cronaca della vicenda.

Verità processuale

Johnny Lee Gates, oggi 63 anni, fu condannato per omicidio, stupro e rapina in merito alla sparatoria fatale del novembre 1976 in cui morì la 19 enne Katharina Wright, nell’appartamento di Columbus dove viveva col marito, un soldato in forza alla base di Fort Benning. Le mani della Wright erano state legate con la cintura bianca del suo accappatoio e delle cravatte nere erano state usate come benda e bavaglio. (da Associated Press)

Siamo in Georgia, uno degli Stati in cui la pena capitale è ancora in pieno vigore (ci sono anche Stati che prima di abolirla in toto attraversano una fase intermedia, ad esempio applicando la sentenza capitale solo in casi eccezionali). All’epoca delle indagini le prove che incriminarono Gates furono le deposizioni di alcuni testimoni che lo videro sulla scena del crimine e la dichiarazione della polizia di aver trovato sue impronte digitali nella casa della ragazza. Era agli atti anche un filmato in cui Gates aveva confessato l’omicidio. Il processo portò alla sentenza più dura, il verdetto fu stabilito da una giuria senza membri afroamericani. Una giuria bianca ha condannato a morte un uomo nero, così la stampa americana sintetizzò i fatti quando il caso ritornò agli onori di cronaca: in effetti emersero successivamente delle note scritte dagli avvocati dell’accusa in cui comparivano parole come “lento”, “ignorante”, “grasso” accanto ai nomi dei possibili membri afroamericani della giuria, tutti esclusi. L’evidente razzismo è stata una delle cause che hanno portato alla revisione del processo.

Altri elementi si sono aggiunti: nel 1992 la condanna a morte di Gates fu commutata in ergastolo a causa del suo deficit mentale,

il suo quoziente intellettivo di 65 lo aveva portato prima a contraddirsi poi, secondo gli inquirenti, a confessare e alla fine (in base a quanto affermato) a essere condannato a morte: pena evitata e commutata in ergastolo solo in quanto l’esecuzione di un disabile mentale è anticostituzionale. (da Avvenire)

Ci sono poi prove che lo scagionerebbero e trascurate nel primo processo:

Nel 2015 il Georgia Innocence Project (l’organismo indipendente di avvocati che assiste i condannati e spesso riesce afar riesaminare i casi) era riuscito a chiedere nuovi test del Dna su due elementi di prova: una cravatta del marito e una cintura di accappatoio con cui, secondo la giuria del 1977, Gates aveva soffocato Katarina Wright. Il Dna rinvenuto era di almeno cinque persone diverse, ma non di Johnny Gates. (Ibid)

In ragione di tutto ciò, la Corte Suprema ha deciso lo scorso gennaio di istituire un nuovo processo per Johnny Lee Gates, le cui udienze sono state seguite dall’emittente Ledger Equirer di cui potete vedere un estratto nel video allegato. Il commento della voce narrante americana riepiloga tutti i dati che ho raccolto finora. L’epilogo è arrivato il 15 maggio: Johnny Lee Gates è stato scarcerato grazie al cosiddetto «patteggiamento Alford», in pratica il patteggiamento che gli ha concesso di tornare in libertà prevede una dichiarazione in cui l’imputato «non si dichiara colpevole del reato per cui è imputato ma è consapevole e ammette che la pubblica accusa può fornire al giudice o alla giuria un quantitativo di prove sufficiente a ottenere un verdetto di colpevolezza». Mi è ostico comprendere questi meccanismi legali, ho chiesto aiuto a un amico avvocato che mi ha messo di fronte al nocciolo della questione: «Esiste la verità. Però esiste anche la verità processuale, che vince».

Esiste una giustizia

Attualmente, facendo un giro sul web, si possono raccogliere appelli opposti. Sul tema rovente della pena di morte ci si confronta senza esclusione di colpi negli USA. Ma a ben vedere, anche usando la logica delle fazioni opposte, nessuno è contento in questa storia: c’è chi grida contro uno stupratore lasciato in libertà e piange una ragazza uccisa a cui non è stata fatta giustizia; c’è chi grida all’ingiustizia di un uomo disabile lasciato in carcere 43 anni senza colpa ed ennesima vittima di razzismo.

Da qualunque parte si tenti di dare un senso a questa storia, i dati esplodono in mano. C’è – naturalmente – una certezza adamantina: in qualunque circostanza, per quanto aberrante e tremenda, la pena di morte non è ammissibile; un sistema giudiziario che ne prevede l’applicazione è viziato dalla ferita di una disumanità inconcepibile. Detto questo, ci troviamo di fronte a due anime completamente irrisolte: la vittima Katharina Wright è stata uccisa e ad oggi, per la legge, non c’è un colpevole a cui addossare la responsabilità della tragedia. E poi c’è l’imputato scarcerato che, secondo le attuali carte processuali, è un disabile rimasto ingiustamente in prigione per 43 anni. Se volessimo invece rimanere persuasi che sia colpevole, ci troviamo di fronte a un uomo psicologicamente fragile, rimasto detenuto per decenni, e la cui coscienza non è stata aiutata a fare i conti con l’evento delittuoso.

C’è poi tutto il filone inerente l’iniquità del sistema giudiziario americano; non è un segreto che siano nel braccio della morte persone appartenenti prevalentemente a minoranze etniche e con scarsi mezzi economici a disposizione. In pratica, più che la verità conta la parcella dell’avvocato che ti puoi permettere.

Un onesto razionalista impazzirebbe. E forse è un primo passo da fare. La ragione impazzisce di fronte al bisogno di giustizia (giustizia per le vittime, giustizia per gli ingiustamente condannati e pure giustizia per i colpevoli che meritano di essere messi in condizione di far i conti con il loro male) così tradito dalle vie umane della legge. Capisco meglio, allora, la frase del mio amico avvocato: esiste la verità. Questa è l’unica premessa che rende umile chi mette piede nei tribunali, sapendo che non sono il luogo supremo che chiarirà in modo definitivo e inappellabile le acque torbide dell’umano.

Se il razionalista di prima sarà davvero onesto, arriverà al dilemma: visto che la giustizia sulla terra non trionfa, allora il cuore dell’uomo è sbagliato oppure deve esistere altrove. Il primo scenario è orrendo perché implica la presenza di una creatura capace di discernere e desiderare una giustizia compiuta in un mondo che non la garantisce. Il secondo scenario fa fare alla ragione un salto d’intelligenza liberante, intenso, pieno. Ed è ciò che Benedetto XVI ci ha invitato a contemplare con queste parole:

In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio è portata all’estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell’uomo abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è diventato speranza-certezza: Dio c’è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la « revoca » della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita. (da Spe salvi)

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