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Unico – di Mattia Mutti: «La malattia mi ha messo in disparte e mi ha fatto comprendere la bellezza delle piccole cose»

MATTIA MUTTI

Mattia Mutti

Paola Belletti - Aleteia - pubblicato il 10/09/20

Affetto da distrofia muscolare di Duchenne, guarda la vita e la sua malattia in faccia, dal punto di osservazione in cui è stato messo proprio da quella condizione difficile eppure non sterile: da seduto e con una certa distanza ha visto cose che altrimenti gli sarebbero sfuggite. E ha deciso di riservare alla vita un amore integrale, prendendola nella sua unicità, senza un filo di retorica.

Ci sono persone che portano su di sé impedimenti e menomazioni senza averne nessuna colpa, nessuna. Se non quella che ci accompagna tutti. Una colpa, qualcosa che ci ha segnato fin dall’inizio e di cui non abbiamo memoria, ma che nella sua assurdità è qui a urlarci in faccia la sua presenza; quella che è e resta mistero, quella per cui il male e il dolore esistono e pure la morte; ma spiegarli, spiegarli per davvero non è possibile. Diffidiamo da chi si candidasse ad illustrarci come fosse tutto dispiegato e pacifico il senso del dolore, soprattutto di quello innocente. Non lo si spiega come si spiega una teoria, piuttosto lo si contempla e si lascia che venga redento, e noi grazie ad esso. Lo si attraversa, semmai, intuendone il valore e forse, a volte, addirittura amandolo.
Ho incontrato Mattia, affetto da Duchenne, grazie a mio figlio ancora piccolo, anche se ormai ha sette anni, che è affetto a sua volta da un’altra malattia rara. Il nostro contatto è stata la fisioterapista che segue entrambi, il mio piccolotto e questo giovane con la passione per la scrittura. Gli ho chiesto se poteva offrirci una gemma anche lui, una parola che più di altre avesse un significato corroborante e rivelatore per la sua vita, prima di tutto. E quella che ci ha offerto è bella, semplice e cruda come la sua scrittura, come il modo che ha di presentare quello che gli tocca vivere e che ha deciso, con un coraggio raro, di abbracciare liberamente. La malattia lo costringe seduto e lui da seduto ci dice cosa vede, cosa capisce, come si accorge di quante cose ci facciamo scivolare via noi che siamo “in piedi”.
Le parole che costruiscono sono come questa che ha scelto Mattia, perché scoprire che la propria vita è unica anziché “diversa” come spesso viene taggata un’esistenza segnata dalla disabilità, cambia tutto. Grazie Mattia. E grazie a Ludovico e ad Eleonora, anelli preziosi di questa catena di incontri.
Di Mattia Mutti
Ciao. Mi chiamo Mattia Mutti. Sono nato il 18 agosto 1991 e abito in provincia di Mantova. Ho una patologia che si chiama distrofia muscolare di Duchenne. È una malattia rara degenerativa che colpisce i muscoli di tutto il corpo, impedendo la formazione di una proteina essenziale al loro rinforzo. Fino ai 13 anni riuscivo ancora a fare qualche passo da solo, poi mi sono seduto sulla carrozzina e da lì in poi non ho più camminato. Essendo colpiti anche i muscoli preposti alla respirazione, necessito di una macchina per la ventilazione non invasiva che utilizzo per tutta la notte e per 2 ore durante il pomeriggio. La diagnosi, arrivata quando avevo 3 anni, fu un duro colpo per la mia famiglia. In un attimo speranze, sogni e aspettative per il futuro furono spazzati via dalle parole di un medico.
Le mie giornate scorrono abbastanza simili tra loro. Ho bisogno di diverse persone nel mio quotidiano per le mie mansioni. I miei genitori sono separati, anche se comunque mio padre viene a trovarmi 4 volte a settimana e a farmi fisioterapia, siccome ha delle conoscenze in quel campo. Diversi volontari del mio paese vengono a darmi una mano quotidianamente affiancati da mia madre che, comunque, è sempre presente. A volte mi stanca avere sempre e comunque bisogno degli altri per ogni cosa che faccio e mi fa arrabbiare che certe persone, con situazioni difficili molto vicine a loro, diano per scontato quanto siano fortunati ad essere sani.
Ho fatto il liceo scientifico e dopo quello ho iniziato l’università, iscrivendomi alla facoltà di psicologia all’università Cattolica di Brescia. Ho fatto 3 anni, ma poi ho mollato poiché da non frequentante facevo fatica a preparare gli esami e non c’era la possibilità di seguire le lezioni online. In più era diventato piuttosto stressante, anche fisicamente. Da settembre 2016 mi sono cimentato in una piccola attività in cui scrivo articoli per un blog una volta al mese. Il blog fa parte del sito dell’ortopedia Guadagni di Mantova e si chiama “visto da seduto”. I miei articoli parlano di svariati argomenti, ma il loro filo conduttore è rappresentato da un punto di vista personale sulla realtà di una persona con delle problematiche fisiche, come appunto la mia disabilità.
Il mio rapporto con gli altri posso dire che è ad oggi prevalentemente positivo. Con i miei familiari, con le persone a me più vicine e con i miei amici vado d’accordo, anche se, come nella maggior parte dei rapporti, ci sono dei momenti di incomprensione o piccoli litigi, ma comunque sempre risolvibili. Con i professionisti nella mia vita fino adesso ho riscontrato sguardi diversi. A volte mi sono imbattuto in un personale freddo, distaccato, tendente a definirti più come ad un lavoro che ad una persona in carne e ossa; altre volte ho incontrato medici e infermieri meravigliosi. Con alcuni ho addirittura stretto legami di amicizia come con il mio cardiologo, da poco in pensione, e con gli infermieri che una volta al mese vengono a controllare i miei parametri. Secondo me è successo questo perché già dal nostro primo incontro ho capito che il loro sguardo mi definiva come una persona dotata di emozioni e non semplicemente come un corpo meccanico da cercare di aggiustare.
La disabilità è difficile. Non sarei sincero se non lo dicessi. Ma allo stesso tempo insegna veramente tante cose. In uno dei miei articoli per il blog in cui ho fatto parlare la mia patologia ho scritto:
ti ho messo in disparte perché molte volte per avere una visione più ampia e vedere il paesaggio per intero bisogna esserne distanti.
Lo penso veramente. La malattia mi ha messo in disparte e mi ha sempre sbattuto in faccia la differenza tra quello che potevo fare io e quello che potevano fare gli altri. Però, allo stesso tempo, mi ha aperto la mente e anche se è una frase che pare scontata, ma vi assicuro che non lo è perché l’ho provata sulla mia pelle, mi ha fatto comprendere l’importanza e la bellezza delle piccole cose. Tante altre persone fanno fatica invece a vederle perché o le danno per scontate o non si prendono più il tempo per riconoscerle. Danno sempre il tempo ad altro giudicato come più urgente o più importante, ma poi le loro vite si svuotano e così facendo diventano sempre più insoddisfatti.
Negli anni ho cominciato ad avvertire il cambiamento dentro di me quando sono passato dal considerare la mia vita da diversa a unica. Sono passato dalla domanda ricorrente “perché a me?” all’affermazione “a me perché…” e non per darmi una colpa per quello che mi è accaduto, bensì perché potessi trasformare il mio più grande problema nella mia più grande forza.
La fede la vivo in maniera piuttosto personale. Non sono praticante, non vado quasi mai in chiesa, ma ho amici preti che a volte vengono a trovarmi e con cui condivido opinioni. Sono convinto anch’io che ci sia un percorso per tutti e che alla fine dei conti tutte le persone credano in qualcosa. Se le persone riescono a trovare il proprio conforto in chiesa ben venga, non ho nulla in contrario. Però, allo stesso tempo, penso che non occorra un luogo specifico per trovare la spinta per andare avanti perché è in noi stessi. Sono convinto che fare il bene per noi stessi significhi, di conseguenza, fare il bene per gli altri e questo è vivere secondo Dio. Nessuno può avere la certezza assoluta di aver trovato il modo giusto di vivere. Penso, però che si possa fare una scelta. Trovare il proprio centro, scegliere di vivere per quello e farlo fino alla fine, qualsiasi esso sia.
Mi sento di poter dire “grazie” perché di certo non sono solo. Le persone che mi vogliono bene e mi appoggiano sono tantissime. Ho una compagnia di amici molto numerosa con cui esco spesso e con cui mi trovo molto a mio agio. Fanno veramente tanto per me, senza mai volere niente in cambio. Spesso dicono che è un piacere stare con me e questo mi rende molto felice. Ci sono dei momenti in cui mi sento “in piedi” anche se non lo sono fisicamente e di questo non posso che essere molto grato.

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