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Vivi come se ti evitassi, schivati fino al punto di trovarti

GIRL, HIDDEN, CURTAIN

Benevolente82 | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 10/12/21

L’io è come la vecchia pellicola fotografica che s’impressionava di fronte alla realtà: più s’immerge nell’altro, più si dimentica di sé, più nasce. Si nasce dandosi alla luce, smettendola di parlare sempre in prima persona singolare.

Scusa, puoi farmi una foto?

«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?»disse la regina. Le favole dicono la verità. Dicono qualcosa di più vero della cronaca che si legge sui quotidiani, o meglio. Dicono il vero che è piantato, e insieme nascosto, nella nostra cronaca umana.

È accaduta una rivoluzione anti-copernicana di cui la tecnologia si è accorta: le fotocamere dei cellulari – a un certo punto – ci hanno permesso di fare i selfie. Siamo ritornati nel castello della regina di Biancaneve. Sarebbe ancora più appropriato dire che ci siamo congedati dalla democrazia di un mondo aperto, per chiuderci nella prigione dorata di una monarchia assoluta.

Abbiamo fatto migliaia di passi indietro per ritornare in un universo in cui la terra è al centro del cosmo e quella terra si chiama Io. C’è un abisso tra Io e io. E cosa più importante di tutte: l’Io uccide l’io.

Attorno a noi si sono moltiplicati gli strumenti che ci consentono di stare allo specchio, di ridurre ogni nostro gesto a un riflesso per ammirare la nostra bellezza. Vogliamo dircelo da soli che siamo belli, i più belli del reame. E tutto il resto è noia, la noia di pianeti succursali che gravitano attorno a noi, anzi a Io.

FILTR, INSTAGRAM

Non è vero che siamo l’esercito del selfie – come canta Arisa – perché il selfie non conosce gruppo o assembramento di sorta. La telecamera si gira, si congeda dall’aria aperta di una realtà tutta a disposizione della nostra esplorazione, si concentra solo su un reame esclusivo, la torre d’avorio del nostro volto, della nostra voce, delle nostre viscere.

Fuori ci sarebbe l’infinito, quella vastità di fronte a cui la vecchia pellicola fotografica s’impressionavaGli abbiamo voltato le spalle. Ed è buio e freddo in questo castello fatto di una stanza vuota e un solo enorme specchio. Era un campo ben concimato quello in cui si fermava qualcuno e gli si porgeva la macchina fotografica chiedendo: «Scusa puoi farmi una foto?». Solo un altro può inquadrarci e metterci a fuoco.

Ho scritto un libro

Oggi, ad esempio, si scrivono troppi libri. E sono libri in cui ciascuno racconta la propria storia come se fosse una nuova epica omerica. Ci autoproclamiamo eroi del quotidiano. E il ci non è formale, è una lotta in cui sono impelagata.  Escono pubblicazioni come funghi in cui un Io celebra il suo Io. Vieterei le autobiografie. Tu non ti puoi conoscere. Ciascuno di noi è la persona meno attendibile per raccontare la propria storia. Solo la voce di un altro può snebbiarci un pochino la vista sul casino che siamo. C’è un passo delle Lettere di Berlicche di C. S. Lewis in proposito.

Lascia pure che la bestiola ci sguazzi dentro. Lascia pure che, se gli viene l’ispirazione, ci scriva sopra un libro: spesso è un ottimo modo per guastare i germogli che il Nemico fa spuntare nell’anima umana.

EGO, MIRROR

A parlare è un diavolo esperto e suggerisce che, per chi ha vissuto qualcosa che lo ha entusiasmato o ferito, la cosa migliore per guastare il senso dell’accaduto è scriverci sopra un libro. L’autobiografismo imperante – quello che tutti facciamo sui social – è uguale al selfie, ed è un veleno suicida. Sappiamolo. Stiamo fuggendo alla velocità della luce dalla cosa più preziosa che ci è data di custodire e scoprire fino all’ultimo istante di vita: io.

Forse potremmo ricordare che la selva di Dante è proprio lo spazio del selfie. Nel 1300 – anno in cui Dante dice di essersi smarrito – ottenne i più grandi riconoscimenti della sua vita. Se volessimo tradurlo in qualcosa di attuale, potremmo paragonarlo al momento di estasi in cui vediamo un ragazzo applaudito sul palco di Xfactor o agli sguardi di esibita felicità dell’influencer che calca il suo primo importante tappeto rosso. Ecco, quella è la voragine della selva. Qualcosa di simile a un auto-cannibalismo. L’Io che trionfa e sbrana ogni piccola traccia di io. Dante fu trascinato a forza via di lì. 

Tutte le opere che aveva scritto prima parlavano di sé. La Divina Commedia è un poema che fa parlare gli altri. Il poeta registra ogni incontro fatto, è spettatore. E, ad oggi, è il testo più clamoroso che sia mai stato scritto sull’io.

L’io non parla in prima persona

L’io è una presenza piccolissima, un accenno di scintilla che non si è ancora fatto luce. È un pianeta nascosto nei recessi nascosti di un universo infinito. L’universo infinito esiste perché la sua scintilla diventi fuoco bruciando di passione per l’esistente, non per sé. L’io è una pellicola scura che s’impressiona, s’illumina e nasce solo quando esce dal proprio castello e va fuori. Più s’immerge nell’altro, più si dimentica di sé, più nasce. Si nasce dandosi alla luce, smettendola di parlare alla prima persona singolare.

Se stai per scrivere un libro in cui il protagonista sei tu e parli di te, fermati. Trova un’uscita di sicurezza e scappa. Non chiuderti nella selva fagocitato di parole che ritornano al mittente del tuo ego. Che sia chiaro: sto parlando a me stessa. Combatto ogni giorno il narcisismo che s’insinua da tutti i pertugi. Conosco il mio nemico, Me Stessa.

Un verso di Wislawa Szymborska:

Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi

PORTRAIT

È il suo suggerimento su come scrivere un curriculum. Lo considero l’unico modo di vivere sensato. Vivi come se ti evitassi. Schivati al punto di trovarti. Sparisci e stai in silenzio, l’io è così piccolo che per sentirne un vagito devi tacere.

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto.

(Luca, 3,1)

Possiamo essere persone di fede, possiamo non esserlo. Non importa, in questo caso. Questo passo del Vangelo è il lieto fine della tragica storia della regina davanti allo specchio. C’è un sacco di gente importante, eletta nei ruoli chiavi dell’impero. Gente in vista, gente che comanda, gente che parla al pubblico dei propri sottomessi. Ma. L’unica parola che conta arriva un signor nessuno che sta nel deserto.

Avranno parlato tanto Pilato, Erode e gli altri. Eppure sono in silenzio in questo brano. Comandano ma non fanno niente, sono statue immobili e mute. Nessuna parola esce da uno specchio che riflette il nostro egoismo. La nostra unica possibilità di scoprire chi siamo è stare zitti, fare deserto attorno al nostro Io, togliergli ogni possibilità di attecchire e crescere rigoglioso.

E come si fa a stare zitti al punto di sentire la voce del proprio io? Rispetta il modo in cui sei fatto. Siamo fatti bene. Gli occhi guardano fuori. Il naso è una protuberanza che spunta fuori. Le orecchie sono protese fuori. Il tatto tocca ciò che è fuori. La lingua assapora ciò che viene da fuori. Siamo fatti per girare la telecamera nell’unica direzione che nutre il nostro cuore più nascosto. Fuori.

Charles Dickens è stato uno degli autori più prolifici di tutti i tempi. C’è voluta un’enciclopedia per raccogliere tutti i personaggi che ha inventato (cioè che ha tirato fuori dalla realtà osservandola). Nella tua storia quotidiana quante presenze ci sono oltre a te? Quante voci ospiti mentre te la racconti?

Vivi la giornata alla seconda o terza persona (singolare o plurale), tuffati nel mistero degli altri che sono attorno a te. Immedesimati nello sconosciuto che ti dà fastidio sul bus. Osserva chi ti sta davanti al supermercato. Ascolta il rumore della lavastoviglie che va. Cammina. Pulisci i vetri di casa. Fotografa quello che vedi dalla finestra del tuo ufficio e poi guardalo. Crea occasioni per evitarti. E dopo un po’ sentirai – pianissimo – un vagito.

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