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La carità, corona delle virtù teologali

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Jean-François Thomas s.J. - pubblicato il 24/08/19

In Gesù Cristo, l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono riuniti in un unico movimento. In lui, la virtù della carità corona il dono della fede e il dono della speranza.

Le allegorie cattoliche della Carità possono sorprendere perché rappresentano spesso un vegliardo canuto che succhia avidamente il seno generoso di una florida donna (sua figlia). Si tratta della “carità romana”, che nutre quanti sono decrepiti e affamati senza stancarsi. In Francia, il XVII secolo ha eletto ad allegoria della carità una madre di famiglia che si prende cura dei figli e li allatta.

La melagrana, un sangue che vivifica

La tela di Philippe de Champaigne che si vede sotto questo paragrafo è particolarmente profonda. Vi si riconosce l’origine fiamminga del pittore perché la donna maestosa e sorridente che occupa il posto principale possiede tratti rubeniani. Ella si divide fra tre bambini, dei quali uno è occupato a succhiare il latte dal suo seno, il secondo – un poco dietro – affonda lo sguardo in quello della madre e il terzo, issandosi sulla punta dei piedi, cerca di raggiungere la melagrana scorzata che tiene delicatamente la Carità, sulla testa della quale plana il fuoco dello Spirito Santo. La melagrana è il simbolo del Corpo di Cristo: i grani serrati e rossi sono come il suo sangue che vivifica quanti lo bevono. Tali grani sono interminabili. Una tradizione vuole che essi siano in numero di 613, il numero delle leggi del Pentateuco, dunque tutta quanta la Toràh data a Mosè. Essendo Cristo la vera e unica Legge, egli è questa melagrana che tutti condividono e non si esaurisce mai.

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L’unione dell’amore di Dio e del prossimo

Che cos’è la Carità? La risposta è semplice: essa è l’amore di Dio per sé stesso e l’amore del prossimo. È un movimento duplice ma unitario nella sua essenza. Spesso si sostiene che il comandamento dell’amore predicato da Cristo non apporti alcunché di nuovo in rapporto all’Antico Testamento. Questo non è vero. L’antica Alleanza parla effettivamente dell’amore di Dio, e anche dell’amore del prossimo, ma Nostro Signore è colui che unisce i due in un unico comando, cosa più che normale perché Egli è vero Dio e vero uomo, oltre che l’adempimento perfetto e il coronamento della Legge. È così quando il Deuteronomio riporta (6, 5) per bocca di Mosè il comando di Dio: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze»; e quando il Levitico ripete (19, 18) ciò che Dio si aspetta dal suo popolo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».




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Le due ingiunzioni sono separate l’una dall’altra, divaricate nella moltitudine di regole e precetti. Cristo opera una rivoluzione associando le due quando schivando la trappola tesagli dai farisei – «Maestro, qual è il comandamento grande della Legge?» (Mt 22, 36) – Gesù risponde consegnando loro il cuore della Legge:

Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questo è il primo e il più grande dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso.

È un’unione, ma sussiste in essa una gerarchia poiché l’amore di Dio deve precedere l’amore del prossimo, altrimenti quest’ultimo sarebbe sterile.

Un fuoco che deve spandersi dappertutto

Anzi, Cristo espande il concetto di prossimo, di amico. Quando uno scriba – anche lui tentando di cogliere in fallo Gesù – gli chiede “chi è il mio prossimo?” (Lc 10, 29), il Maestro racconta a lui e a noi la parabola detta “del buon samaritano”, liberando la categoria di “prossimo” da quella di “appartenente al popolo eletto”: ogni uomo è prossimo e di ogni uomo – anche di eretici e scismatici – gli eletti sono chiamati a farsi prossimi. La carità non ha più frontiere. Essa non è più una regola da mettere in pratica all’interno di una comunità delimitata, essa è un fuoco che deve spandersi dappertutto. Essa è una melagrana aperta e ciascuno deve poterne assaporare un grano. Essa è dunque la regina delle virtù, quella che non passerà mai, come canta san Paolo nel celebre inno contenuto in 1Cor 13, 8:

La carità non finirà mai. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesseranno e la scienza svanirà.

Indirizzandosi ai Colossesi in un’altra epistola, l’apostolo dei gentili avrebbe precisato: «Al di sopra di tutto, poi, vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione» (Col 3, 14).

La più grande delle virtù

Ecco perché san Tommaso d’Aquino avrebbe consacrato un trattato molto lungo e ricco a illustrare che cosa sia la Carità, virtù teologale (S.Th. IIa-IIæ, q. 23-46). Avrebbe commentato nel dettaglio le parole di Paolo in 1Cor 13, 13: «Di queste tre la più grande è la carità». La carità tocca Dio «così com’Egli sussiste in sé stesso, non in quanto da Lui ci proviene qualcosa», scrive il Dottore angelico.


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Cronologicamente, se possiamo usare quest’espressione, la carità è la terza delle virtù teologali. Bisogna anzitutto che la nostra coscienza si desti a Dio, perché essa è capace di Dio – questo mediante la Fede che è il nostro assenso al Dio che si rivela e alle verità rivelate, quali non possono essere conosciute mediante l’esercizio della nostra pura ragione. In seguito, la Fede ha bisogno di essere in qualche modo tenuta allenata, altrimenti con la nostra volontà fiacca ricadremmo nell’indifferenza o nell’incredulità. Donde la Speranza, che ci lascia intravedere la beatitudine che davvero ci colmerà. Entra allora in gioco la Carità, come un coronamento, una «trasfigurazione della coscienza soprannaturale», per riprendere l’espressione del padre Gardeil.

La gerarchia nella carità

Non consideriamo a sufficienza che il peccato mortale ci priva della carità perché ci fa perdere la grazia santificante, mentre tuttavia conserviamo la fede e la speranza – cosa che ci permette di riprenderci, di rialzarci, di pentirci. La nostra esperienza del peccato ci fa toccare con mano fino a che punto la carità sia preziosa, principio vitale e movente supremo. Il soggetto della carità è, sì, la nostra volontà, mentre il suo oggetto è ciò cui deve puntare il suo amore, vale a dire Dio, noi stessi e il prossimo. Così esiste un ordine formale, una gerarchia nella carità.




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Tuttavia questa logica non è rigida, perché l’aspetto soggettivo della carità, secondo le circostanze, interviene a sfumare l’ordine preesistente. San Tommaso d’Aquino sviluppa con dovizia di dettagli e di finezza l’ordo caritatis (fermo restando che il primo ad essere servito deve restare Dio, origine di ogni carità):

È […] Dio che per la carità dev’essere amato principalmente e al di sopra di tutto: egli è amato, infatti, come la causa della felicità, mentre il prossimo è amato come partecipante insieme con noi alla felicità.

q. 26 a. 2 concl.

La carità verso Dio non è un’altra essenza rispetto a quella verso il prossimo. Si tratta di una differenza di grado e di priorità, ma non esistono una carità di “prima qualità” e un’altra di seconda scelta, contrariamente a quanto avviene per l’industria dell’alimentazione di cui ci nutriamo. L’ineguaglianza non sta se non nel primo posto, ovvero su chi ne sia il legittimo detentore. Il nostro Dottore ha ragione nel sottolineare il punto seguente:

[…] Anche sotto il rapporto dell’affetto, conviene che ci siano delle diseguaglianze nel nostro amore del prossimo. Ed eccone la ragione: poiché Dio e colui che ama sono i principî dell’amore, è necessario che ci sia un più grande sentimento di dilezione secondo che l’oggetto sia più vicino a uno di questi due principî.

q. 26 a. 6 concl.

Questo significa che chi pretende di amare appassionatamente quelli che vede solo tramite schermi e che lascia l’anziana madre a marcire in un ospizio non vive alcuna carità – e che questa dev’essere ben ordinata. Cominciamo con l’amare i membri della nostra famiglia, i membri della nostra comunità, i membri del nostro Paese, prima di guardare altrove millantando grandi sentimenti che non riposano sulla Carità divina.

«Il suo cuore fondeva»

Per chiudere questa (troppo breve) riflessione, contempliamo Colei che ha vissuto della Carità perfetta poiché l’ha portata in seno, la Santissima Vergine Maria. Charles Péguy, proprio in Le Mystère de la Charité, la canta mentre quella segue il Figlio verso il Calvario:

Ella piangeva. Ella fondeva. Il suo cuore fondeva.

Il suo corpo si fondeva.

Ella fondeva di bontà.

Di carità.

La carità, veramente vissuta come virtù teologale, fa fondere l’essere e lo rimodella a sua immagine. Ecco perché i grandi santi ci sbalordiscono e provocano la nostra ammirazione. Essi sono stati fusi e un’altra materia ha preso il posto della loro carne corruttibile: la carità che non muore mai e il cui trono resterà saldo nell’eternità.

Nella trilogia:


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[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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