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L’infelicità dei figli è un fallimento dei genitori?

MOTHER, SON, SADNESS

Rawpixel.com | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 15/07/22

Nel tempo dei figli pianificati e voluti la loro infelicità diventa il fallimento di un progetto genitoriale. Se mio figlio è Mio, prevarrà la mia misura ridotta di felicità e la mia idea di 'aggiustarlo'. Se mio figlio è Suo, allora tutto di me è a servizio della sua anima che cresce di istante in istante.

Ieri ho incrociato un titolo che è stato un vero e proprio trigger, come si suol dire. Non si tratta di un articolo recente (aprile 202o, in effetti), ma il tema è incandescente. Ero in biblioteca alla ricerca di un buon giallo (lettura estiva per eccellenza) e l’occhio è caduto su una rivista di psicologia su cui campeggiava questo contenuto a lettere cubitali:

Le mamme di oggi riescono a tollerare il dolore dei figli?

Non sono riuscita a passare oltre, l’indagine si è spostata dalle detective stories al mio impegno quotidiano in famiglia. L’articolo in questione è a firma di Laura Turuani (psicoterapeuta) ed è un affondo sull’infelicità dei figli vista attraverso lo sguardo materno.

Ne emerge uno dei paradossi emblematici del nostro tempo: siamo una società che non fa più figli eppure è puerocentrica, idolatra – cioé – i figli messi al mondo ‘al momento giusto’. Sembra un quadro impazzito, ma c’è una amara coerenza in questo disegno.

… e anche una proposta alternativa, a portata di mano e coraggiosa.

Il figlio come iperinvestimento affettivo

Abbiamo cresciuto figli assai pensati, desiderati, cercati, a volte programmati solo dopo il conseguimento di molte altre mete evolutive, a volte attesi spasmodicamente in seguito all’ausilio di sofisticate tecnologie. Un livello di preziosità e iperinvestimento affettivo che difficilemente può essere immune da una moltitudine di proiezioni, aspettative e desideri di riuscita.

Laura Turuani
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Esatto, proprio qui casca l’asino. Quello appena riportato è un ritratto che rispecchia fedelmente l’abbaglio attuale. E non è facile discernerlo. Un figlio è qualcosa di preziosissimo: questo è evidente, lapalissiano, incontestabile. Ma qual è l’origine della sua preziosità?

Nel tempo dei figli pianificati a tavolino, o in laboratorio, ‘fatti quando è il momento giusto’, s’insinua la logica subdola del prodotto: la preziosità si sposta dalla presenza in sé della creatura all’idea che sia preziosa perché è stata cercata, voluta, come ulteriore tassello di gratificazione nella vita dei genitori.

Sempre più spesso ci accorgeremo che la proposta cristiana dell’apertura alla vita ha a che fare con la radice più profonda della nostra umanità, e non è solo una dritta riproduttiva. In realtà è una voce liberante, incoraggiante. Se un figlio è un dono e non un calcolo, allora questo ne preserva il suo valore intoccabile, che esiste prima e al di fuori dell’amore dei genitori.

L’orizzonte del ‘eccoti, accolgo il mistero e la meraviglia che sei’ è agli antipodi di quello del ‘ti ho voluto, quindi sei importante’. La prima scena inquadra noi genitori come custodi di un tesoro più grande delle nostre mani. La seconda ci riduce a fabbricatori preoccupati, ansiosi che il prodotto rispetti le aspettative di cui lo abbiamo sovraccaricato.

Un figlio non è il ‘per sempre’ di una madre

Negli ultimi decenni, complice anche la diffusione dei metodi anticoncezionali, che hanno svicolato la sessualità dalla procreazione, la maternità è diventata una scelta: spesso procrastinata, di certo molto investita, comunque inseirtia in un progetto esistenziale più ampio.

Il ruolo materno oggi si fa largo in una donna che, prima di vivere l’esperienza della sala parto, ha già precedentemente investito e coltivato molti altri Sé oramai considerati irrinunciabili. Il Sé femminile, il Sé sociale, il Sé professionale, il Sé coniugale, solo per citarne alcuni, hanno richiesto impegno, tempo e la dedizione necessaria al titanico bisogno di voler far tutto, e farlo al meglio, che la cultura narcisistica oggi impone.

Il figlio è il nuovo ‘per sempre’, ancora spesso unico, prezioso, tardivo e la mamma si prepara ad accoglierlo cercando, sì, di difendere tutti i propri Sé, ma anche pronta a mettere al servizio della sua cura il perfezionismo che la contraddistingue, affinando la propria capacità multitasking e il proprio bisogno di controllo.

Laura Turuani
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La madre è così, se si riduce a un ruolo pianificato a tavolino. Tanti Sè e un io intero che manca. Mentirei se dicessi che non mi trovo perfettamente descritta nell’ultima parte di questa citazione. Se il ritratto della mia persona dipendesse dai miei criteri, cadrei nella trappola della madre esecutrice: quella brava, il cui progetto migliore, a un certo punto della vita, sono diventati i suoi figli.

L’esperienza cristiana ha ribaltato la trappola di questa impostazione mentale. Ed è verissimo che senza lo specchio che è la buona notizia di Dio per me, sarei ridotta a una frammentazione in tanti Sé, ciascuno molto ego-centrato. Il mio io intero è un dono che ricevo quando mi vedo guardata dal Padre.

E non è secondario il riferimento agli anticoncezionali. Come per l’apertura alla vita, il tema va oltre la camera da letto. L’anticoncezionale è il simbolo della sterilità della pianificazione personale. La fecondità è innazitutto l’aprirsi all’accoglienza del primo dono presente, che è la realtà – qualcosa fuori da me, dai miei calcoli. E così quando l’abbaglio da smania progettuale trabocca dal recinto lavorativo nell’ambito della vita che nasce ci si rovescia addosso un’ansia da prestazione opprimente. Detta brutale: quella volta che non uso il profilattico, devo generare il Top di Gamma.

Una volta che ho voluto questo figlio e l’ho messo al mondo, se la sua vita è imperfetta, se attraversa momenti di infelicità, se conosce la caduta … inevitabilmente, come genitore, vivo le sue ombre come un fallimento personale. L’ottica si distorce al punto da piantare il seme dell’egoismo nell’altro più caro che abbiamo, il sangue del nostro sangue.

Un figlio non è il ‘per sempre’ di un genitore, non è l’oggetto vivente che porta sulle spalle il peso di dover essere il motivo di una felicità appagata di suo padre e sua madre.

Un volto, tra le lacrime

Ieri sera mia figlia mi ha allontanata, perché la stavo strettando. In realtà la stavo abbracciando, ma il suo neologismo è stato illuminante: stringevo e, probabilmente, stressavo.

Strettiamo i nostri figli, quando li trattiamo da nostri. Li stritoliamo in quadro angusto se non riconosciamo innanzitutto che la loro relazione con Dio viene prima del nostro amore. Se sono nostri, sappiamo bene che noi siamo gente che non si perdona un fallimento. Se sono di Dio, il fallimento non esiste. Esiste invece il miracolo di una scoperta sorprendente ad ogni angolo, di cui noi genitori siamo custodi, alleati, sostenitori. Responsabili, non padroni.

Fa male vedere un figlio piangere, vederlo infelice è la lama di un coltello che s’infila giù in fondo. Ma solo se mi riconosco incapace di possedere per intero la sua persona posso essergli di vero aiuto. Se mio figlio è Mio, prevarrà la mia misura ridotta di felicità e la mia idea di ‘aggiustarlo’. Se mio figlio è Suo, allora tutto di me è a servizio della sua anima che cresce di istante in istante. E solo così posso abbracciarlo senza paura quando il suo cuore piange, perché quelle lacrime non sono il mio fallimento, ma un tassello nel disegno di Dio per mostrami meglio il volto di chi ho messo al mondo.

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