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Quand’è che un popolo deve rinunciare a difendersi da un aggressore?

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Ślub na wojnie

GENYA SAVILOV/AFP/East News

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 17/03/22

Sollecitati da un intenso corsivo di don Severino Dianich, ragioniamo con lui dei limiti della dottrina della difesa armata: è sempre doverosa? è sempre lecita? perché l’epica dei “pochi contro molti” ci affascina? e cosa rivelano le Scritture?

È stato portato alla mia attenzione un articolo del noto teologo don Severino Dianich pubblicato su Il Sismografo l’8 marzo 2022: vi si raccolgono argomenti che trovano vasta risonanza in me, dal momento che dal 24 febbraio a oggi ne ho passata in rassegna una buona parte. 

Mi permetto di accodarmi (e accordarmi) all’andamento personale, riflessivo e meditabondo di Dianich, il quale ammette di non essere «uno stratega né un politico» e dunque di non avere alcuna «competenza nella questione», consistente di 

Ci sediamo idealmente accanto a lui, dunque, mentre «dice a voce alta pensieri che gli frullano in testa», e proviamo a fare altrettanto. Come possiamo, senza pretese. 

E cominciamo col sottoscrivere in toto la sua vasta ouverture

Sono impressionato del fatto che oggi, in una pur estesissima condanna della guerra e di chi l’ha voluta, con l’iniqua aggressione di un popolo confinante e fratello, persista nell’opinione pubblica una certa mistica della difesa armata: quanto è ardente la sacrosanta indignazione per l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, tanto diventa esaltante l’eroica reazione degli ucraini e sacro dovere ogni sostegno alla loro difesa armata. Chi potrebbe negare a un popolo aggredito il diritto di difendersi anche con le armi? Eppure non posso evitare di domandarmi: quando? sempre? a quali costi? con quali previsioni?

Poi però Dianich dichiara di essere andato a rivedersi 

il Catechismo della Chiesa Cattolica e osservo che vi si raccomanda di “considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale”.

Fra queste se ne chiarisce una: “Che ci siano fondate condizioni di successo” (n. 2309). Penso che non sarebbe facile contestare il buon senso e la ragionevolezza di questa condizione. L’Ucraina aggredita ha davvero davanti a sé “fondate condizioni di successo”?

Ecco il punto principale su cui i pensieri che frullano nella mente di Dianich s’incontrano con quelli che frullano nella mia: già la mattina del 24 febbraio, a poche ore dall’inizio dell’aggressione russa contro l’Ucraina, mi trovavo qui in Redazione a bocciare un articolo ricapitolativo sulla dottrina della “guerra giusta” per quella medesima ragione. In esso la condizione di cui al nº 2309 del CCC veniva appena elencata e nient’affatto messa a tema: così com’era scritto, quell’articolo diceva in sintesi che “quando un popolo è aggredito ha perciò stesso e sempre il diritto di difendersi”. Senza se e senza ma

Il giorno dopo, ossia il 25 febbraio, preso dai dubbi (anche per l’articolo bocciato), mi confrontai con un amico esperto in molte cose, fra cui simili complesse questioni morali e giuridiche, il quale concordava con me: 

Certamente sarebbe immorale la condotta di un governo che pretendesse l’annientamento dei suoi cittadini per prolungare una resistenza senza possibilità di successo.

E con lui andavo ragionando dialetticamente delle questioni in gioco. Anche qui posso raccoglierle per punti: 

  • si sottolinea poco che tra le condizioni della “guerra giusta” ci sono anche la possibilità di vittoria e una prospettiva di bilancio costi-beneficî accettabile; 
  • d’altro canto, arriva un momento in cui la morte stessa è preferibile alla sopravvivenza in cattività; 
  • in particolare è difficile valutare l’invito, che fin dal principio dell’aggressione era stato esteso anche ai civili, ad accorrere in difesa della Nazione (è vero che da mesi e anni gli Ucraini si addestravano per l’infausta occorrenza, ma acquisire destrezza con l’uso delle armi non sarà proprio come imparare ad andare in bicicletta); 

In quella mattina del 25 febbraio il mio dotto e documentato amico mi scriveva: 

Concordo. Leggevo proprio adesso il comunicato con cui il ministero della difesa ucraino ha invitato gli abitanti di Kiev a dotarsi di molotov da gettare sui mezzi russi per “neutralizzarli” (come se un carro armato potesse essere neutralizzato così). Francamente mi sembra una chiamata al massacro dei civili alquanto irresponsabile.

Alla mia pleonastica osservazione per cui l’invito a resistere con le bottiglie all’artiglieria potrebbe essere chiamata “dottrina intifada” l’amico rispondeva rincarando la dose sul piano istituzionale e diplomatico: 

Sono basito […] dalla notizia che il ministero dell’Interno stia distribuendo armi ai parlamentari, quando i membri del Parlamento avrebbero dovuto essere i primi ad essere evacuati, insieme al governo, e trasferiti in una zona sicura per garantire la continuità del processo legislativo e decisionale. Oltretutto l’eventuale formazione di un governo in esilio non sarebbe un disonore, anche perché se tutti i vertici dello Stato venissero annientati non ci sarebbe più alcuna opposizione organizzata e riconosciuta dalla comunità internazionale ad un governo-fantoccio filorusso.

Lo scenario che tanto io quanto il mio interlocutore avevamo in mente, però, ancora in quel 25 febbraio, era quello del Blitzkrieg, che sulla carta pareva l’unico possibile: la Russia che invade l’Ucraina e trova resistenze relativamente inconsistenti, si prende quello che vuole e spegne i cannoni, racconta la sua versione ufficiale e pro bono “pacis” facciamo finta di crederle. Tale sentiment era così capillarmente diffuso che sembrava di percepire ancora, nella prima narrazione giornalistica mainstream, un malcelato fastidio per la resistenza ucraina (oggi sembra impossibile, visto che adesso i giornali fanno letteralmente “il tifo” per l’Ucraina, ma gli articoli e i servizi televisivi sono ancora disponibili, e resta per me indimenticabile Monica Maggioni che la mattina del 25 febbraio definì su Rai1 “non una buona notizia” la manifestata intenzione degli Ucraini di resistere all’assedio di Kiev). 

La “trasformazione” della guerra in Ucraina (e sui media)

Roland Joffé, The Mission, 1986

Avevo, quella mattina, l’impressione che tutti stessimo aspettando solo il cedimento dell’Ucraina alla violenza putiniana, e riflettevo proprio su un’altra espressione che Dianich usa nel suo testo, perché anche io ho sempre biasimato l’adagio massimalista “fiat iustitia, pereat mundus”, ma non sono tanto sicuro che il suo esatto rovescio – fiat mundus, pereat iustitia – sia preferibile. «Il mondo è così», diceva con velata ironia il Don Hontar di The Mission al cardinale Luis Altamirano, e poi riecheggiava blasfemo le parole evangeliche: «Dobbiamo lavorare nel mondo!». E a lui di rimando, il Cardinale: «No, Señor Hontar: così il mondo lo abbiamo fatto noi. Così l’ho fatto io». 

Cosa è accaduto, in pochi giorni, rovesciando le aspettative del sistema massmediatico, oltre che di quello politico? Che la guerra di Putin non è stata affatto un Blitzkrieg, ma si stava impantanando nelle stesse zolle argillose che già frenarono la tracotanza di Napoleone e di Hitler: frattanto le sanzioni cominciavano a gravare sulla Russia (cioè sul popolo russo, il quale non ha colpa delle follie del suo leaderma ha la prima e nativa responsabilità di scalzarlo, dato il palese caso di inadeguatezza e/o indegnità), e a ogni giorno di resistenza ucraina abbiamo visto spostarsi il fulcro di sotto alla leva della guerra in atto, in modo che gradualmente i rapporti di forza non sono più stati ristretti al bruto confronto di arsenali e soldati. In altre parole, abbiamo visto e ricordato che la guerra non è un fenomeno meramente militare, ma anche politico ed economico

Facciamo ora lo sforzo di non considerare, per un minuto, il lato più orrido della follia bellica, cioè la distruzione, la morte, la paura, lo sfollamento, l’odio, e di limitarci invece ai suoi aspetti “formali”, come se (mi si perdoni l’enormità) si giocasse a Risiko: l’aggressione della Russia all’Ucraina aveva scatenato l’inquietudine planetaria, ma l’inopinata resistenza ucraina ha acceso accanto a questi fuochi quelli dell’interesse. Il crollo del rublo, le sanzioni internazionali e l’implicita crisi politica della Russia hanno aperto uno scenario appetibile almeno per gli USA e la NATO, da un lato… e la Cina dall’altro. Sia gli avversari di sempre sia la storica alleata, per eterogenesi dei fini, possono giovarsi di un Cremlino infiacchito, tanto più se in quella brutta situazione Putin è andato a cacciarsi di sua sconsiderata iniziativa. 

A questo si aggiunga che davvero non c’è alcun casus belli prossimo che possa attenuare la grave colpa putiniana… ed ecco che in pochi giorni tutto il mondo si è trovato a “tifare Ucraina”. Non senza i (lamentabili, ancorché prevedibili) eccessi del caso: la narrazione eroica del presidente Zelens’kyj (al netto del fegato da comandante in capo sul campo – cose che l’Occidente non conosce dalla fine del XIX secolo) non aiuta la causa ucraina perché non aiuta a comprendere lo spirito popolare che animerebbe una resistenza anche senza il suo attuale capo. Allo stesso modo i media farebbero bene a non insabbiare gli imbarazzanti (e ambigui) casi dei bombardamenti nel centro di Donetsk, su obiettivi non-militari e con ampia uccisione di civili: se fossero stati gli Ucraini a farli, come potrebbe sembrare, si dovrebbe prendere atto di una flagrante insipienza strategica, che rapidamente consumerebbe i crediti politico-diplomatici accumulati finora; se invece fossero stati i Russi, come pure potrebbe essere, si avrebbe una riprova ulteriore del conclamato cinismo del Cremlino, giacché “la difesa di Donetsk” era uno dei paraventi per l’aggressione. 

Tutto questo per dire che ancora il 25 febbraio anche io avrei sottoscritto, quasi fino alle virgole, le osservazioni di Dianich. Da allora però sono intercorsi ventuno giorni di guerra, a stamane, in cui i pesi sono forse rimasti pressappoco i medesimi, ma le leve su cui gli stessi sono montati hanno subito importantissime variazioni. S’impone allora una domanda ulteriore, tanto più a persone (come noi) che si professano e sono profane in quella tracimazione impazzita della politica che è la guerra: davvero la resistenza ucraina, almeno ora che possiamo guardarla per qualche aspetto a posteriori, era (ed è) sconsiderata? 

La “mistica della difesa armata” tra narrazione epica e ragione pratica

Vorrei provare a restare lucido, mentre ragiono di quella “certa mistica della difesa armata” evidenziata con comprensibile preoccupazione dal teologo di Fiume. Certo che è un argomento in cui le emozioni hanno una parte irriducibile, come testimonia il tweet della giornalista Monica Mondo con cui, a mezzogiorno del 26 febbraio (quindi quando il miraggio del Blitzkrieg non si era ancora vanificato) si evocava l’epica battaglia del fosso di Helm per illustrare l’assedio di Kiev (e la resistenza ucraina). 

Se fare da questi argomenti la tara delle emozioni risulta praticamente impossibile, si può sempre provare a “interrogarle”: perché ci emoziona l’irrazionale difesa dei pochi contro i molti? Perché – ben prima di Tolkien e del suo mondo immaginifico – abbiamo costruito narrazioni epiche sulle battaglie di Maratona e Salamina? 

Il succo della Storia, a leggerla tutta, non è che il sacrificio di Leonida e dei Trecento servì a permettere ai greci di chiudere a Platea il discorso espansionistico dei Persiani, ma che appena vent’anni dopo questo fulgido “trionfo della democrazia sulla tirannide” le poleis avviarono una guerra intestina più lunga, più complessa e più cruenta (nonché indicibilmente meno nobile) di quella che le aveva viste compattarsi contro la minaccia esterna. È la guerra del Peloponneso a insultare la memoria dei Trecento. 

Anche Petrarca si esaltò al pensiero di epiche gesta nel suo paese natìo, e dopo di lui generazioni e generazioni di “italiani” s’ispirarono ai versi “vertù contra furore / prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto…” (Italia mia). Ancora Leopardi, pochi decenni prima di Verdi e di Mameli, avrebbe smaniato per veder compiuto un Risorgimento che al suo tempo ancora stentava a mettersi in moto: «Nessun pugna per te? non ti difende / nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo / combatterò, procomberò sol io. / Dammi, o ciel, che sia foco / agl’italici petti il sangue mio» (All’Italia). Benché Petrarca e Leopardi siano tra gli italiani che, nella storia, meno facilmente ci si può immaginare in attitudine seriamente guerresca, li studiamo e li amiamo, pur con un sorriso ironico, e li teniamo con Dante e Manzoni tra quanti hanno ispirato l’unità nazionale del nostro Paese. Non sono i Ragazzi del ’99, col loro lacrimevole e inestimabile sacrificio, a vanificare i loro sensi e i loro versi, bensì i cedimenti al fascismo, all’imperialismo, allo stragismo terroristico, al consumismo edonistico, all’individualismo e alla corruzione. Questo sì che pone seriamente la questione: valeva la pena di spargere tanto sangue, se poi dovevamo ridurci così? 

Mi inquieta, come inquieta Dianich, la “mistica della difesa armata”, ma non mi sembra del tutto condivisibile l’affermazione per cui l’immolazione di un popolo per una causa votata a scacco quasi certo è sempre avvenuta 

grazie ad un’opera di sacralizzazione di un ideale politico divinizzato e diventato oggetto di fede.

Certo a Masada c’erano gli Zeloti, che avevano trasformato la fede in politica. Certo l’Holodomor fu cinicamente programmato da Stalin, che aveva trasformato la politica in fede. Ma fecero male i Vandeani a resistere ai Giacobini? Fecero male i Cristeros a non cedere a Calles? Se la risposta a queste due domande è affermativa, si sta (neppure indirettamente) insinuando che il martirio è un disvalore, mentre invece esso resta – per dirla con Von Balthasar – “il caso serio” del cristianesimo nel mondo. La ragione invece per cui troviamo epica la resistenza dei pochi contro i molti è l’innata fede dell’uomo in una Giustizia che, proprio perché trascende l’umanità stessa, vale più della vita. A tale Giustizia è intimamente legata la Libertà, e le due sono tanto poco chimere nazionalistiche di marca moderna che Dante – il quale di sé stesso scrisse “libertà va cercando…” – mise a custodia del suo Purgatorio Catone l’Uticense, pagano e suicida per non sottomettersi a Cesare. 

L’argomento si fa insidioso, me ne rendo conto, perché se da un lato la coscienza attesta all’uomo che non solo la libertà e la giustizia, ma pure altre cose (tra cui primeggiano l’amore e la verità) valgono più della vita… dall’altro l’indisponibilità della vita (altrui ma anche propria) dovrebbe restare un faro della riflessione etica e politica: invece in Italia non sono mancati perfino (sedicenti) teologi che, in questi giorni, hanno unito alla sperticata celebrazione della resistenza ucraina un volgare sostegno all’introduzione surrettizia della legge sull’eutanasia in Italia. Ecco cosa reca disdoro al sangue di chi raccolse nell’Italia il «volgo disperso che nome non ha» – e tale sembra determinato a farlo tornare. 

La Rivelazione (non) parla chiaro

Che si può fare, dunque? Che si deve fare? Fino a che punto è doveroso resistere? Fino a che punto è lecito? Temo che non esistano risposte univoche a queste domande. La stessa Storia Sacra offre molti esempî contrastanti, in tal senso. Penso anzitutto alla Lettera di Geremia, con la quale il Profeta esorta i concittadini deportati a Babilonia da Nabucodonosor (e dunque votati alla pulizia etnica per assimilazione) a non ribellarsi ai Babilonesi, bensì anzi ad attivarsi come cittadini virtuosi nel loro mutato contesto: 

Questo è il messaggio del Signore dell’universo, Dio d’Israele, per tutti quelli che ha fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia: Costruite case e abitatele, coltivate orti e mangiatene i frutti. Prendete moglie e abbiate figli e figlie. Date moglie ai vostri figli e marito alle vostre figlie perché abbiano anch’essi molti bambini. Crescete di numero, lì dove siete, e non diminuite. Lavorate per il benessere della città dove vi ho fatti deportare e pregate il Signore per lei, perché il vostro benessere dipende dal suo. «Il Signore dell’universo, Dio d’Israele, vi dà anche questo avvertimento: Non lasciatevi ingannare dai profeti che vivono in mezzo a voi né da quelli che predicono il futuro; non date retta a quelli che interpretano i vostri sogni. Tutti questi pretendono di parlarvi a nome mio, ma quel che dicono non è vero. Io non li ho affatto mandati». Questo dice il Signore. Il Signore dice ancora: «La potenza di Babilonia durerà settant’anni. Solamente allora io interverrò a vostro favore e realizzerò le promesse che vi ho fatto, di farvi ritornare qui, nella vostra patria. Io, il Signore, ho fatto progetti precisi su di voi. Vi assicuro: sono progetti di benessere, non di sventure perché voglio darvi un futuro pieno di speranza. Allora, quando verrete a supplicarmi e a pregarmi, io vi esaudirò. Mi cercherete e mi troverete. Poiché mi cercherete con tutto il vostro cuore, io mi lascerò trovare da voi, ve lo prometto. Ricostruirò il vostro popolo, vi radunerò da tutte le nazioni e da tutti i paesi dove vi ho dispersi. Vi farò ritornare nel luogo dal quale vi ho fatti partire per l’esilio». Questo dice il Signore. 

Ger 29,4-14

Geremia denuncia come falsi profeti – e appunto per contrastarne l’azione scrive la lettera – quanti sobillano il popolo invitandolo alla rivolta contro il nemico. Chiaramente sarebbe un’azione votata a una repressione spietata dalla quale nessuno scamperebbe, ma si può con ciò elevare questo testo a norma univoca della Scrittura giudaico-cristiana per casi tanto complessi? Non è forse essa stessa contraddetta da un capo all’altro delle stesse Scritture, cominciando da Mosè, che senza neanche poter contare su un esercito espose un popolo schiavo a un’indefinita escalation di vessazioni? Il VI secolo della deportazione babilonese si colloca quasi esattamente a metà fra il XII dell’epopea mosaica e il II di quella maccabaica, nella quale si ha un altro mirabile manifesto di resistenza strenua all’invasore (laddove anzi Giuda Maccabeo si spinge perfino a respingere la possibilità della ritirata strategica!): 

Giuda era accampato in Elasa con tremila uomini scelti. Quando videro la massa di un esercito così numeroso, ne rimasero sgomentati e molti si dileguarono dal campo e non rimasero che ottocento uomini. Giuda vide che il suo esercito si disgregava mentre la battaglia incalzava; si sentì venire meno il cuore, perché non aveva possibilità di radunare i suoi, e tutto affranto disse ai superstiti: «Alziamoci e andiamo contro i nostri avversari, se mai possiamo debellarli». Ma lo dissuadevano dicendo: «Non riusciremo ora se non a mettere in salvo noi stessi, ma torneremo poi con i nostri fratelli e combatteremo; da soli siamo troppo pochi». Giuda disse: «Non sia mai che facciamo una cosa simile, fuggire da loro; se è giunta la nostra ora, moriamo da eroi per i nostri fratelli e non lasciamo ombra alla nostra gloria».

1Mac 9,5-10 

Non sembra di poter dunque raccogliere dalle Scritture giudaico-cristiane indicazioni concrete e univoche sui limiti (se ve ne siano e quali siano) della difesa rispetto all’aggressore. Certamente una delle opere teologiche e narrative che più densamente affrontano la questione, fra le altre, sta nei Tre dialoghi di Solov’ëv, seguiti dall’ineffabile Racconto dell’Anticristo. Neppure lì si trova la risposta, che forse è irrimediabilmente demandata al discernimento dei singoli e dei popoli: però vi si trova – e dipanata con ineguagliabile attenzione – la domanda. 

vous devez
Vous n'avez
En créant

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